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20.04.2023 # 6250

Marco Maraviglia //

Michael Ackerman, Homecoming. New York/Varanasi/Napoli

Tornando a casa, con un taccuino carico di appunti ai sali d‘argento, dai bordi strappati, come racconti da leggere dentro

Tornando a casa. Ma si è sicuri di tornare a casa? Siamo convinti di avere parametri certi che definiscano il concetto di “casa”?

Cos‘è una casa? Uno spazio dove sentirsi protetti e custodire roba accumulata durante la nostra esistenza che non potremo portarci dall‘altra parte della vita?

Un tetto che ti dia la sicurezza del focolare domestico con un partner, figli, il gatto o il cane, l‘angolino bar dove sai che puoi farti un cicchetto quando vuoi?

Il luogo dove hai acqua, gas, luce, elettrodomestici e il letto per dormire?

È tutto indispensabile?

Giovanni Verga alla fine dell‘800, con la sua novella La roba cercò di dirci qualcosa in merito.

Cosa serve per vivere? Forse la sola stessa vita è sufficiente. La casa è dentro di noi. Sentirsi a casa, e ovunque, è cosa diversa rispetto a essere a casa o di tornare a casa. Sentire o essere? Un po‘ shakespeariano il senso ma ci serve per trovare una chiave di lettura del lavoro di Michael Ackerman.

Sentirsi a casa in ogni luogo è forse una questione di stabilità emotiva esercitata vivendo l‘effimero, con la privazione, con la consapevolezza che nulla è per sempre. E quindi è possibile vivere con l‘essenziale. Dove ambizione e desiderio di possedere punti di riferimento fisici, sono sopraffatti dall‘esperienziale puro. Dagli istanti di centesimi di secondo che rubano il mondo che percorriamo.

A un madonnaro chiesi cosa provava nel sapere che dopo qualche giorno le sue opere disegnate sui marciapiedi scomparivano sotto il calpestio dei passanti e della pioggia: «È una sensazione bellissima. Impari a non legarti alle cose e che la vita continua». Puoi ricostruire ciò che è andato distrutto. Meglio o comunque diversamente. Tutto passa. Tutto ci scorre avanti ad alta velocità e non possiamo portarci tutto dietro. Ma forse dentro sì perché cuore e mente sono più capienti di una valigia o di un tir per un trasloco.

 

Non ho mai avuto la certezza di una casa. Sono nato in Israele, cresciuto a New York e ora vivo con mia moglie e mia figlia a Berlino. Ho sempre saputo di essere un outsider e mi sento legato ad altri outsider, ai paesaggi urbani e non, e agli animali che incarnano questo spirito. Sono guidato dal bisogno di guardare al di là della superficie e delle facciate. In un certo senso, di vedere l‘invisibile.

-Michael Ackerman

 

Michael Ackerman è uno sketcher della fotografia. I suoi sono schizzi ai sali d‘argento. È come se fossero acquerelli di luce realizzati con matite consumate. Dure, grasse o a carboncino. In questi appunti di carta fotosensibile si impongono la grana di pellicole tirate anche a 3200 ISO, le macchie di arresto parziale dell‘emulsione, vignettature, le infiltrazioni di luce di fotocamere vintage ormai non più a tenuta di luce.

È l‘effetto-Holga, la toy camera accessibile a tutti ma usata intenzionalmente e magistralmente per creare contenuti fotografici outsider. La fotocamera qui non serve per fare la bella o la buona fotografia, ma è l‘istante che fa la foto. L‘estetica qui è nella sveltina, intensa, piena, di vita vissuta. Perché la fotografia, quando è passione, è anche come un amplesso rubato dal tempo. E non è lo strumento che fa la foto, ma l‘istante e il ricordo che viene congelato in quell‘attimo stesso. Quel che resta.

 

Ackerman non cerca mai “l‘istante decisivo” come altri fotografi ma cattura quel momento tra i momenti, quell‘attimo in cui l‘inaspettato o l‘invisibile si rivela, cogliendo non ciò che vediamo, ma ciò che sentiamo.

- Sarah Moon, fotografa

 

Quel che deve restare è l‘emozione, l‘attimo, quel magico accordo tra luce, incontro col soggetto e scatto che non necessariamente deve mostrare il visibile, ma l‘intravisto o il percepito, il ricostruire tra i puntini della grana il vuoto: chiudere mentalmente ciò che non si vede ma c‘è. Come nudi velati che intrigano ma senza mostrare.

 

Queste di Michael Ackerman sono appunti sciolti, spaiati come pezzi di carta lasciati liberi sulla scrivania dopo aver parlato al telefono oppure raccolti come taccuini di viaggio. Alcune sequenze sono stampate come piccole fisarmoniche ricordando i souvenir vintage o certi blocchetti per appunti da viaggio della Moleskine.

 

I suoi ritratti, posati o fugaci, mettono a nudo le emozioni di un‘umanità che è allo stesso tempo cupa, tenera, vulnerabile, persino dolce. Sono frutto di profonda empatia e affetto.

Immagini composte in trittici, dittici, usate in sequenza, in formati diversi, scandiscono un ritmo e una narrazione quasi cinematografici.

- Cristina Ferraiuolo

 

Sono soggetti ripresi tra New York e Varanasi. Città ad alta densità di stimoli visivi. Alta densità di varietà umana, di spunti di vita e di vista. Sarebbe impossibile fotografare tutto e secondo i canoni tecnici classici. Perché se ne sminuirebbe il concept ackermaniano. Perché nelle metropoli tutto avviene in tempi esponenziali. Michael Ackerman nei suoi scatti volutamente “trascurati”, ci restituisce quelle atmosfere dove anche gli animali hanno un ruolo da protagonisti in quel rapporto di convivenza con gli umani sul pianeta.

 

Ma è lo “strappo” una delle caratteristiche più particolari del lavoro di Ackerman.

Come se fossero provini di stampa, parte delle foto esposte hanno i bordi strappati a mano. Il che fa tutt‘uno con la ricerca estetica di Michael Ackerman descritta fin qui.

E l‘apoteosi dello “strappo di Ackerman” è sulle pareti di un angolo della Spot home gallery, dove sono applicati ritagli di provini di stampa che fanno entrare idealmente il pubblico nella camera oscura di Michael.

Lo “strappo” come marchio di riconoscimento. Appunti di “acquerelli di luce” ai sali d‘argento, quasi come se fossero note di spesa strappate casualmente da un vecchio foglio di carta.

Perché tutto è effimero, riscrivibile. Il confine del definito è solo questione di forma mentis.

Chi torna a casa, sa che ritroverà quegli appunti e dove: dentro di sé. Riconoscendoli anche al buio perché la casualità dello strappo sui bordi, li rende diversi l‘uno dall‘altro. Ogni bordo è il segno di un ricordo emotivo, come se fosse raccontato in una specie di braille: "lo strappo Ackerman".

 

Biografia

Michael Ackerman è nato a Tel Aviv nel 1967. All‘età di 7 anni la sua famiglia è emigrata a New York, dove è cresciuto e ha iniziato a fotografare all‘età di 18 anni. Ha esposto in mostre personali e collettive in tutto il mondo e ha pubblicato 5 libri, tra cui End Time City, edito da Robert Delpire, che ha vinto il Prix Nadar nel 1999. Le sue opere sono presenti nella collezione permanente del Museum of Fine Arts di Houston, del Museum of Modern Art e del Brooklyn Museum di New York, della MEP e della Biliothèque Nationale in Francia, oltre che in molte collezioni private. Attualmente vive a Berlino.

 

 

Michael Ackerman

Homecoming

New York • Varanasi • Napoli

dal 13 aprile al 30 giugno 2023

Spot home gallery

via Toledo n. 66, Napoli

+39 081 9228816

info@spothomegallery.com

www.spothomegallery.com

 

 

In copertina: © Michael Ackerman. New York, 2021

17.04.2023 # 6249

Marco Maraviglia //

Gianni Berengo Gardin. L‘occhio come mestiere

Oltre 200 fotografie che raccontano l‘Italia dal dopoguerra a oggi. Un mondo estinto o che sta scomparendo

Tenetevi forti! L‘uomo da quasi 2milioni di scatti fotografici è qui.

Quello che non usa mai il 50 mm perché preferisce il 35 mm per stare più dentro la scena. Quello che timbra dietro le sue stampe fotografiche “vera fotografia”, antagonista del digitale, perché lavora solo con pellicola e stampe ai sali d‘argento. Perché solo così sa che può toccarla e avvertirne il possesso. È il fotografo dai quasi 260 libri pubblicati tra cui 30 con il Touring Club Italiano. Perché i giornali lo facevano lavorare poco anche se ha collaborato con riviste come Domus, Epoca, Le Figaro, L‘Espresso, Time, Stern.

È quello che, dopo aver fotografato Giuseppe Ungaretti durante una manifestazione studentesca a Venezia, la polizia caricò e un poliziotto gli spappolò il pollice con una manganellata. E gli è rimasto il bitorzolo. E anche la foto del poliziotto che immortalò con la sua Leica mentre era rincorso.

Quello che ebbe da Ugo Mulas un simpatico rimprovero perché non conosceva la differenza tra una fotografia bella e una buona fotografia.

È quel fotografo che quando propose le sue prime fotografie di Venezia, otto editori che contattò gliele bocciarono perché non era una Venezia “turistica”. Ma gli pubblicò il libro un editore svizzero e fece il botto.

 

Eh sì, c‘è Gianni Berengo Gardin a Napoli. Classe 1930. In realtà a Napoli c‘è già stato diverse volte di persona per fotografare e alcuni degli scatti che ha fatto, sono presenti tra le oltre 200 fotografie in mostra alla Casa della Fotografia in Villa Pignatelli andando a implementare le immagini già esposte al MAXXI di Roma nel 2022.

Si suggerisce di andarci con un paio di tramezzini e acqua per osservarle tutte con calma.

Perché non è una passeggiata. Cioè sì, lo è ma lunga, nello spazio e nel tempo. Perché si attraversa l‘intero stivale, da Nord a Sud, dagli anni ‘50 a oggi.

Una faticata? No. Un piacevole viaggio che inizia dalle gigantografie che ritraggono i dettagli del suo atelier mansardato. Ordinato in maniera quasi maniacale: in una di queste foto non si vede perché è in bianconero, ma gli attrezzi per bricolage ritratti sono tutti dipinti in rosso per avere un certo ordine. Un ordine forse scaturito da un‘esperienza sgradita, se non traumatizzante: di quando durante un trasloco perse alcune foto che fece a Parigi, comprese quelle fatte a Jean Paul Sartre.

E poi si attraversano le altre sale con fotografie esposte in un percorso volutamente non cronologico. Ragazzi che ballano in spiaggia con un vecchio grammofono; un lungo bacio di una coppia sotto i portici e la durata di quel bacio è determinata dai piccioni a terra che sono mossi.

 

Sono un guardone. Il fotografo deve essere un guardone, un curioso, con uno sguardo che vada oltre la fisicità dei soggetti.

 

Le foto di Gianni Berengo Gardin sono tutte rigorosamente in bianconero. Perché è cresciuto col cinema, la tv, la fotografia in bianconero e il colore, come lui e altri grandi fotografi della sua generazione sostengono, distrae l‘attenzione dalle scene ritratte.

Nelle sue immagini vediamo un mondo che, per certi versi, sta scomparendo o è già finito. È la missione consapevole e progettuale di Berengo Gardin: lavorare per l‘archivio per tramandare ai posteri il “come eravamo”.

Come stava, cosa faceva, come viveva la gente nelle città italiane. Per le strade, sulle spiagge, durante le feste, i lavori in strada o, come quella di un basso napoletano da lui immortalato: un negozio di scarpe nella casa.  I villaggi Rom, i luoghi rurali, l‘Aquila colpita dal terremoto, i personaggi che ha incontrato come Cesare Zavattini che scrisse per lui alcuni testi dei suoi libri, Peggy Guggenheim, Sebastiao Salgado, Ugo Mulas, Dario Fo… E poi, gli operai delle fabbriche e dei cantieri. Indagini sociali e urbanistiche di un‘Italia che andava rinnovandosi, si trasformava durante il babyboom, fino a giungere negli ultimi anni alle foto di denuncia delle grandi navi a Venezia.

 

Amavo molto Venezia, poi è stata assassinata dal turismo.

 

Documenti fotografici che fanno ormai parte dell‘iconografia del Belpaese. Come le immagini realizzate per l‘Olivetti che mostrano l‘umanità della fabbrica con spazi destinati a servizi sociali e culturali per le famiglie dei dipendenti.

O quelle sulle condizioni dei degenti nei manicomi italiani, realizzate per il libro Morire di classe, in tandem con Carla Cerati. Immagini struggenti che sensibilizzarono ulteriormente l‘opinione pubblica e lo stesso Franco Basaglia che si batté per la Legge 180.

Alcuni suoi libri già documentano un‘Italia che non c‘è più, altri saranno documenti per il futuro.

 

Il vero DNA della fotografia è la documentazione.

Non sono un artista, non voglio passare per un artista, assolutamente… io sono uno che racconta quel che mi succede intorno, sono un testimone della mia epoca.

 

La fotografia per Gianni Berengo Gardin, non è un divertimento, ma un vero e proprio impegno sociale. Non ha frequentato scuole di fotografia, si è formato dalla lettura dei libri, entrando in contatto con i luoghi e le realtà sociali in essi descritte. A tal fine, furono per lui utili persino le figurine della Liebig di cui possiede ancora la collezione. E poi ha imparato da centinaia di libri di fotografia. Di vecchi fotografi e qualcuno tra i più giovani. E considera suo maestro assoluto Willy Ronis (1910-2009) per l‘aspetto della fotografia umanista.

 

L‘Italia di Giani Berengo Gardin è un mondo che scompare e, per certi versi è già finito. Come disse Goffredo Fofi, nelle sue fotografie vi sono volti dell‘epoca che non esistono più. Quelle espressioni di un popolo povero ma felice, laborioso in cerca di riscatto, creativo, intraprendente, è un‘altra storia.

Ma nulla scompare per sempre. Perché restano come testimoni gli oltre 250 libri che Gianni Berengo Gardin ha pubblicato. A volte collaborando con fotografi come Gabriele Basilico, Luciano D‘Alessandro, Ferdinando Scianna, l‘architetto Renzo Piano.

E alcuni di quei libri sono esposti in questa mostra, da vedere da soli o con i figli. Per mostrar loro “come eravamo”.

Magari inquadrando il QR code per essere accompagnati dalla voce di Gianni Berengo Gardin che racconta in prima persona aneddoti e ricordi legati alla sua vita personale e professionale.

 

 

 

L‘occhio come mestiere, Gianni Berengo Gardin

a cura di Margherita Guccione, Alessandra Mauro, Marta Ragozzino

Villa Pignatelli, Casa della fotografia- Napoli,

6 aprile - 9 luglio 2023

 

Foto di copertina: Una grande nave in bacino San Marco, Venezia, 2013; © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia

 

UFFICIO STAMPA DIREZIONE REGIONALE MUSEI CAMPANIA

+39 081 2294478 | drm-cam.comunicazione@cultura.gov.it

UFFICIO STAMPA MAXXI

+39 06 324861 | press@fondazionemaxxi.it

UFFICIO STAMPA CONTRASTO

+39 3334872200 | valentina.notarberardino@contrastobooks.com

11.04.2023 # 6244

Marco Maraviglia //

Luca Stoppini, Tra il muro della terra e i martìri

Fino al 13 aprile nella chiesa di San Giuseppe delle Scalze, le alchimie visive dell’invisibile

Nulla è come sembra.

Non tutto è visibile di fronte all‘occhio guidato dalla razionalità della mente. Sei abituato a riconoscere lo spazio e il suo contenuto secondo regole e canoni standardizzati da sovrastrutture matematiche, estetiche, biologiche, esperienziali, ma non è tutto lì il mondo. Non finisce dove arriva l‘occhio.

Eppure è la stessa matematica che ci “promette” l‘infinito. Oltre il quale due rette possono incontrarsi.

È una strada, è LA strada da percorrere per superare la ragione affinché l‘irragionevolezza possa poi diventare ragione conclamata. Lì dove l‘invisibile diventi visibile.

Tra due specchi paralleli ci riflettiamo duplicandoci a perdita d‘occhio. L‘Io si annulla oltre l‘ultimo riflesso che non riusciamo a scorgere.

 

Proprio questo movimento ondulatorio fluido che la rifrazione crea è quello che io costantemente cerco di cristallizzare con le manipolazioni-distorsioni nelle mie immagini cercando di “vedere” anche quell‘immagine che la luce ha trasportato nella nostra parte inconscia e che muove le nostre emozioni più forti. Sono immagini quindi che riflettono il profondo costantemente agitato dal nostro inconscio.

- Luca Stoppini

 

Le immagini di Luca Stoppini è come se sfidassero l‘equilibrio frattale. C‘è in esse armonia e ritmo anche se lontane dall‘omotetia geometrica. Del resto, chi ha lavorato per oltre 30 anni per la Condé Nast come art director, non poteva non avere un senso rivoluzionario dell‘estetica, addestrato e maturato per catturare l‘attenzione dell‘osservatore.

Fotografie, o porzioni di esse, distorte, deformate, fino a privarle di ogni riferimento tangibile, concreto, visibile. Parti di corpo umano divengono materiale fluido, come colori a olio sulla tavolozza e da avvicinare tra di loro, componendo forme sinuose, tortuose e a spirali ma senza mescolarli. Senza diluirli, anzi, alternando vuoto e pieno affinché il momento finale di questa danza emotiva, si compia. Sembrano bocche di piantine carnivore o fiori tropicali? La risposta è ciò senti.

Sono alchimie foto-grafiche. «Pittografie in cui si avverte il sapore di un‘attesa che riposa, per esplodere negli occhi di chi guarda» (Maria Savarese). Produzione dell‘invisibile, dell‘inesistente per (di)mostrare che può esistere e avere un suo perché. Come in una ricerca di laboratorio dove si manipolano molecole per guarirne o produrne delle altre. Qui il laboratorio è il software, si usano gli strumenti digitali di elaborazione dell‘immagine come lo strumento “altera” o il filtro “fluidifica” del Photoshop, introducendo ulteriori livelli che vanno ad interagire con i pre-esistenti, fin dove il tutto si compie. Dove la fotografia, il pieno, si annulla nel vuoto rigenerando altro pieno nel colore.

 

Immagino esista una ventiquattresima coppia di cromosomi. Molecole che riempiendosi e svuotandosi costantemente modificano e rendono fluide le geometrie del corpo. Le emozioni sono il motore che genera questo movimento. Il mio continuo scansirlo vuole renderle visibili. Appena entrato alle Scalze lo scambio tra pieno e vuoto mi ha colpito fisicamente. Come quando per la prima volta percepisci fisicamente le onde sui cui corre la musica. La forma del tuo corpo viene plasmata dall‘emozione; pieno e vuoto sono lì, davanti a te. Immobili, immediatamente reattivi alle tue emozioni. Luce e buio, enorme e microscopico, rumore e silenzio. Sacro e umano. Esiste lì una decadenza che vive di luce propria. Attraversandola ti fai dieci volte più alto, nello scoprirla minuscolo. Voglio in questa mostra entrare leggero come l‘aria che muove una tenda, violento come il vento che fa sbattere la finestra, che rompe i vetri. Come uno specchio in queste immagini voglio riflettere l‘emozione che ha modificato il mio corpo durante questi anni.

- Luca Stoppini

 

Un sottile concept intimo ed emotivo maturato negli spazi che ospitano la mostra dove i grandi spazi sono un‘alternanza di pieno e vuoto. E dove le stesse immagini di Luca Stoppini, si alternano nei vuoti degli spazi della chiesa.

Tre grandi fotografie (3x4 m) a terra e in controfacciata una di altrettanti dimensioni mentre lungo tutto il perimetro delle pareti, sette opere di grandezza inferiore.

Fotografie che sembrano un tutt‘uno con il contesto circostante e che avviano un dialogo visivo capace di riempire quel senso di smarrimento che si avverte quando si percorre la chiesa.

 

In questo luogo il pieno e il vuoto è lì, davanti a te pronto allo scambio. Apparentemente immobile ma immediatamente reattivo alle tue emozioni. La luce e il buio, l‘enorme e il microscopico, il suono e il silenzio e ovviamente il sacro e il profano. Esiste lì una decadenza che vive di luce propria. Attraversandola ti fai alto più di dieci volte la tua statura e minuscolo nello scoprirla.

- Luca Stoppini

 

La Chiesa di San Giuseppe degli Scalzi è quindi il luogo che si presta all‘esposizione. Un HUB di rigenerazione urbana che, grazie al Forum Tarsia, dal 2005 lavorò per restituire alla cittadinanza “Le Scalze”.

 

Bio (dal comunicato stampa)

Nasce a Milano nel 1961. Vive e lavora tra Milano e Parigi

Luca Stoppini è un professionista dell‘immagine a 360°. Per più di trent‘anni direttore artistico di Vogue Italia e de L‘Uomo Vogue, oggi direttore creativo di ICON Mondadori, ha curato il concept visuale di molte campagne e pubblicazioni della moda, affiancando sul set molti dei più grandi e conosciuti fotografi di moda e vanta collaborazioni con case editrici internazionali come Skira, Rizzoli International, Thames&Hudson e musei come Triennale di Milano, Victoria and Albert Museum di Londra. Designer grafico, ma anche artista puro, Stoppini ha sperimentato una varietà di materiali e di tecniche, per realizzare opere immagini bi e tridimensionali che sono state esposte nel contesto di personali e collettive in diverse parti del mondo, entrando a far parte di

alcune importanti collezioni d‘arte contemporanea. Fra i suoi strumenti più consoni, veloce e versatile per prendere appunti visivi non stop, per annotare estemporaneamente situazioni e momenti, ma anche per registrare e trasporre soggetti, suggestioni, colori e patine della vita nel suo lavoro d‘artista, la macchina fo­tografica digitale si è trasformata in una congeniale, irrinunciabile estensione dello sguardo di Luca Stoppini. Un mezzo per accostare, rilevare e penetrare situazioni diverse, un modo di accostare, decodificare, penetra­re le forme della vita vita e le dinamiche dell‘arte.

 

 

LUCA STOPPINI

Tra il muro della terra e i martìri

mostra fotografica a cura di Maria Savarese

Con il sostegno di Kiton

Chiesa S. Giuseppe delle Scalze

Salita Pontecorvo, 65 - Napoli

Dall‘1 aprile al 13 aprile 2023

orario: 10.00 - 16.00

domenica chiuso

ingresso libero

per ulteriori informazioni:

Ufficio stampa

Guardans-Cambó

tel. 02 43990159

press@guardanscambo.com



13.03.2023 # 6224

Marco Maraviglia //

Pino Grimaldi: Fotodesign. Didascalie d‘autore con immagini (1972-2017)

L‘ideatore del blur design in una insolita mostra fotografica quasi autobiografica. Un album fotografico collettivo

Didascalie con foto. Come dire «toga con avvocato» oppure «arredamento con casa» o ancora, «acqua con bottiglia». Il soggetto è contenuto o contenitore?

Pino Grimaldi è stato una delle punte di diamante dello scenario del graphic design nazionale che purtroppo ci ha lasciati giusto tre anni fa. Nel pieno delle sue attività professionali.

Pensare all‘inverso è un modo di progettare la soluzione prima che si presenti il problema. Significa andare oltre. Arrivare alla luna senza badare nemmeno al dito che la indica.

Pino Grimaldi quando iniziò a pensare questo progetto probabilmente immaginò la famosa massima di Ansel Adams «Ho sempre pensato che la fotografia sia come una barzelletta, se devi spiegarla vuol dire che non è venuta bene». Perché sapeva che questa non poteva essere un principio assoluto.

Pino aveva un altro (ma anche alto) concetto della fotografia. Con l‘avvento del digitale, si era reso conto delle opportunità che si presentavano.

 

Oggi la fotografia è totalmente digitale (i nostalgici tecnofobi se ne facciano una ragione); la fase di produzione seriale è scandita da una filiera che non è più lo sviluppo e stampa, ma è ancora molto più complessa di prima e attraversa diverse fasi.

Dell‘antica scansione binaria: Ripresa + Sviluppo e Stampa è diventata una ragnatela di momenti, tutti delicatissimi, tutti molto, molto dipendenti dalla tecnologia e dalla capacità di controllarla allo scopo di avere un output che coincida con l‘intenzione dell’autore. Anche se l‘autore, se appena è un poco consapevole, sa che il lavoro una volta consegnato al sistema dei media non gli appartiene più e va a ricollocarsi in un nuovo senso che è quello del contesto nel quale è inserito.

 

È nella consapevolezza di quella sua idea di fotografia che la immagina come fonte progettuale di design. Un‘opportunità creativa per fotografi, grafici, designer, comunicatori. Qualcosa che può non essere solo a sé stante per illustrare o documentare, ma diventare fruibile in maniera partecipata, un prodotto interattivo. Utile, come un qualsiasi oggetto di design ben progettato.

 

Pino Grimaldi aveva selezionato fotografie da lui scattate tra il 1972 e il 2017 che fermavano quarantacinque anni di alcuni momenti da lui vissuti. Documentavano sintesi di storie che solo lui o una ristretta cerchia di persone, potevano (ri)conoscere e ricordare. Le foto pubblicate sui giornali sono a corredo degli articoli, in fondo, ma Fotodesign di Pino non sono pagine di giornale con fotografie, ma è come un album di memorie fotografiche. Di quelli dove si annotano frasi, ricordi, note storiche in calce alle foto stesse. Ma con la particolarità che quelle didascalie sono scritte non da chi ha “attaccato” le foto nell‘album, ma da chi era lì al momento dello scatto o perché coinvolto per altri motivi.

Il contenuto diventa packaging. Apoteosi della simbiosi tra prodotto e suo contenitore. Quell‘album fotografico veicola storie nella sua totalità. Le foto non hanno ragione di esistere senza quei pensieri scritti.

 

E allora ecco le “annotazioni” del critico d‘arte Achille Bonito Oliva, della gallerista Lia Rumma, dell‘artista Lello Esposito e, ancora, qualcuno scrive citazioni per un ritratto fatto a Marina Abramovich durante una performance nel ‘72 alla Galleria Morra. E poi altre didascalie che accompagnano le foto scritte da Daniela Piscitelli, Giovanna Cassese, Angelo Trimarco, Massimo Bignardi, Anty Pansera, Luciana Libero, Alba Palmiero, Alfonso Amendola, Franco Tozza, Andrea Manzi, Carlo Pecoraro, Maria De Vivo, Giuseppe Durante, Paolo Apolito, Paola Fimiani, Rino Mele, Silvana Sinisi,Marcello Napoli, Cettina Lenza, Antonella Fusco, Maria Rosaria Greco, Rossella Bonito Oliva.

Tutti cari amici di Pino Grimaldi conosciuti negli anni e con i quali ha condiviso quei momenti fotografici.

 

Sono esposte trentaquattro fotografie con relative didascalie. Non hanno la pretesa di essere tecnicamente perfette. Alcune non sono state riprodotte e ritoccate per eliminare imperfezioni tecniche per ristamparle, ma sono le stampe originali ai sali d‘argento. Nude e crude, così come erano state conservate da Pino.

Ogni didascalia è accanto alla foto e occupa la stessa grandezza dello spazio della foto. Citazioni, ricordi, riflessioni, spunti di dibattiti.

 

L‘apporto di Ilaria e Daria Grimaldi, figlie di Pino, è stato fondamentale per la messa in opera di questa mostra. Ne parlavano insieme, durante la fase progettuale, e la successiva scoperta e lettura degli appunti del padre, le ha portate a definire il tutto nei dettagli per questa mostra. C‘era un‘ottima intesa tra loro e Pino credo che avrebbe apprezzato il risultato finale.

Un progetto che non resterà solo appeso alle pareti del Palazzo Fruscione di Salerno per soli quindici giorni, ma è già un libro che sarà presentato il 15 marzo alle 18.00 nella stessa sede espositiva alla presenza di Vincenzo Napoli, Sindaco di Salerno, e altre personalità del mondo dell‘arte e della cultura.

 

Pino Grimaldi è stato un grande designer che è riuscito a disegnare anche questo delizioso progetto in maniera condivisa, con empatia, con i suoi amici, pur avendoci lasciati prima. E sarà un‘occasione per i giovani graphic designer per conoscere questa sua idea e per ricordarlo insieme, tra vecchi amici, con i sorrisi nella mente.

 

Copertina: Marina Abramovich - performance Galleria Lia Rumma 1972 © Ph. Pino Grimaldi

Foto sotto: Achille Bonito Oliva - 1972 © Pino Grimaldi




 

Fotodesign-Didascalie d‘autore con immagini - 1972 -2017

Mostra fotografica di Pino Grimaldi

Dal 15 al 31 marzo Palazzo Fruscione (Sa)

vicolo Adelberga  19

Inaugurazione 15 marzo ore 17.30

Ingresso libero

dal martedì al venerdì: ore 11.00 - 13.00 e dalle ore 17.00 alle ore 20.00.

Il sabato e la domenica dalle ore 10.30 alle 20.30 in orario continuativo.

Info: comunicazione@blendlab.it

Blendlab

08.03.2023 # 6220

Marco Maraviglia //

Roberto Lavini espone 13 fotografie stampate al Carbone al Museo della Fotografia di Brescia

Fotografia duratura, tattile, uno dei processi fotografici dell‘800 mostrati da vicino

È solo polvere elettronica quella che conservi. Non le vedi se non accendendo un dispositivo elettronico di visualizzazione e attivando un software. Se non c‘è corrente elettrica, restano invisibili. Qualcuno direbbe che se non si possono toccare, non esistono. Qualcun altro dice che scompaiono quando meno te l‘aspetti da un hard disk o da un dischetto. Sono le foto digitali. Facili da fare, belle da vedere ma indipendenti. Figlie che non ti appartengono se non le stampi per tenerle con te. Inserendole in un album cartaceo o per metterle in cornice appendendole a una parete. O per farne un libro. Stampato su carta!

 

Roberto Lavini, classe 1956, originario di Salerno ma che vive in un piccolo borgo a Civitella in Val di Chiana provincia di Arezzo, è cresciuto nell‘era analogica della fotografia. Pur lavorando nella fotografia commerciale e per privati, fin da ragazzo è a contatto con la camera oscura, ingranditore, bacinelle, luce rossa e chimici. Un‘esperienza che non ha mai interrotto perché gli sembrava «la strada migliore per percorrere un approccio consapevole allo studio della fotografia». Si concentra negli ultimi anni sullo sviluppo di suoi progetti creativi, condividendo le sue ricerche attraverso articoli per riviste di settore, dimostrazioni pratiche e offre servizi di consulenza per la stampa con i procedimenti alternativi a fotografi artisti.

 

Si laurea al DAMS di Bologna dove, studiando storia della fotografia, si appassiona alle antiche tecniche dei processi fotografici.

 

Quegli studi furono per me una vera fonte di ispirazione perché sentivo l‘esigenza di un maggiore coinvolgimento nel processo creativo, di “connettermi sensorialmente” con i lavori che stavo eseguendo; in pratica volevo immergermi nella sperimentazione con lo stesso fervore delle generazioni di fotografi che mi avevano preceduto. Oggi i materiali sono diversi rispetto a quelli che usavano i fotografi dell‘800, quindi ho dovuto provare a percorrere nuove strade, non ultima quella del digitale per la produzione di negativi di grande formato per la stampa a contatto.

 

Negli anni Roberto Lavini ha dovuto studiare nuovi materiali e chimici per emulare i processi fotografici dell‘800 perché nel frattempo non più disponibili anche per questioni ecologiche.

 

Dal 2017 la Comunità Europea ha vietato utilizzo dei bicromati perciò numerosi sono stati i tentativi per sostituirli con altre sostanze più sostenibili per l‘ambiente.

Il sensibilizzante Das (della famiglia dei Diazido) risponde a questa esigenza in quanto non è nocivo per l‘uomo e per l‘ambiente e in più ha un‘azione indurente sui colloidi migliore dei bicromati. Questa sostanza, con semplici modifiche al processo, ci consente di eseguire ancora ottime stampe al carbone.

 

Riguardo la produzione di negativi di grande formato per la stampa a contatto, Roberto Lavini ha percorso la strada del digitale. In un‘era ancora ibrida in cui convivono e-book e libri in carta, banconote e carta di credito, pennelli e tavoletta grafica, se la tecnologia digitale può essere di supporto per ottenere un risultato visivo finale, tattile e di qualità nel dettaglio, ben venga.

Il processo al carbone è noto per la stabilità delle stampe, in termini di durata nel tempo e per l‘ampia gamma tonale che restituisce. «Nel mondo dell‘arte e del collezionismo fotografico, le stampe al carbone sono considerate tra le più preziose». Si presentano come se fossero a rilievo, specie nelle zone dei neri, vien voglia di toccarle, carezzarle con le dita.

 

Roberto Lavini espone 13 stampe al Carbone (a colori e monocromatiche). I formati vanno dal 24x30 cm al 40x50 cm.

Senza cornici e senza passepartout. Esposte orizzontalmente all‘interno di vetrinette.

Insomma, una chicca per gli appassionati della fotografia vintage.

 

 

 

I Colori Del Carbone

a cura di Gabriele Chiesa

dall‘11 marzo all‘8 aprile 2023 (inaugurazione mostra Sabato 11 Marzo ore 17:00)

Museo Nazionale della Fotografia di Brescia

Contrada del Carmine, 2F

ingresso libero

orari:

Lunedì e Venerdì chiuso.

Martedì, Mercoledì e Giovedì ore 9:00 - 12:00

Sabato, Domenica e festivi ore 16:00 - 18:45

Info:

www.museobrescia.net Tel. 030 49137

 

 

Il 12 marzo, presso lo stesso museo, avrà luogo un workshop condotto da Roberto Lavini:

 

LA STAMPA AL CARBONE SENZA CROMO

 

·       Premessa. Ai partecipanti si richiede di realizzare ed inviare a infocorsi@cameracreativa.it entro mercoledì 1 marzo, un autoritratto (foto digitale, anche smartphone). Il file servirà per produrre la matrice 7x10,5 cm (rapporto tra i lati 1,5) che verrà impiegata per stampare, durante il workshop, un segnalibro fotografico personalizzato in bicromia al carbone. A conclusione del workshop ciascuno dei partecipanti riceverà il proprio.

·       Mattina: storia e panoramica del processo. Evoluzione e le principali innovazioni. L‘uso del DAS al posto dei bicromati. La scelta dei pigmenti, ricette e taratura degli ingredienti. Preparazione della carta carbone (tissue): mescola degli ingredienti e stesa della soluzione di gelatina.

·       Pomeriggio: esecuzione di una Stampa al Carbone BN su due strati di gelatina pigmentata. Messa a registro della Carta Carbone sulla Carta da Trasporto e Sviluppo.


"Prometeo" - stampa al carbone © Roberto Lavini


In copertina: "Magic bus" - stampa al carbone © Roberto Lavini

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