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13.09.2023 # 6334

Marco Maraviglia //

Straordinarie quelle donne!

Oltre 100 ritratti di Ilaria Magliocchetti Lombi per la campagna INdifesa di Terre des Hommes

Oltre 100 fotografie realizzate da Ilaria Magliocchetti Lombi, su un‘idea della curatrice Renata Ferri, di donne che si sono affermate nel mondo dello spettacolo, della politica, dello sport, del giornalismo, letteratura, editoria, scienza, arte… saranno in mostra allo spazio Extra Maxxi di Roma dal 13 settembre al 6 ottobre.

Oltre cento storie di donne che, in barba ai pregiudizi e discriminazioni di cui sono spesso colpite, ce l‘hanno fatta.

 

Protagoniste contemporanee che hanno vinto battaglie professionali con sacrificio, studio, perseveranza, dedizione. Facendo slalom tra mobbing, indifferenza e spesso svolgendo contemporaneamente anche il “lavoro” più delicato e complesso di questo mondo: quello di madre. Ma c‘è chi ha rinunciato ai figli per la carriera. Perché, tra l‘altro, alcune aziende non accettavano donne decise a fare figli e il congedo parentale su modello svedese, era una lontana chimera.

 

Mediamente lo stipendio delle donne in Italia è dell‘11% in meno rispetto a quello degli uomini.

Donne pluri-laureate che, in certi ambienti di lavoro, sono appellate “signora” e non con il “dott” che sembra riservato stranamente solo agli uomini. O, peggio, usare l‘appellativo “giovane” per una donna quando si ritiene non abbia competenze ed esperienza per pregiudizio o voluta arroganza.

E il cat calling? Il body shaming? Le toccatine non consensuali nell‘ambiente di lavoro? E il non potersi sentire femminile e piacersi, coccolarsi, truccandosi un po‘ e indossare una minigonna andando al supermercato?

Senza parlare delle denunce per stalking, quelle rimaste inascoltate che rischiano di sfociare in finali tragici.

Per dire. Perché non è tutto. In certi luoghi del mondo le cose vanno anche peggio.

 

La mostra è una carrellata di ritratti tutti in verticale, in primo piano, figure intere, piani americani. Immagini sobrie senza essere state scattate con l‘intento di spettacolarizzare i soggetti che sono invece ripresi nella loro semplice personalità.

Perché la fotografa Ilaria Magliocchetti Lombi non ha bisogno di autocelebrarsi attraverso questo lavoro visto che la sua attività è ben consolidata con grandi referenze tra cui pubblicazioni su riviste anche internazionali come Vanity Fair, Rolling Stone, Der Spiegel, El Pais Semanal e tante altre.

Perché qui non si tratta di presentare un lavoro fine a se stesso, ma di un‘operAzione di sensibilizzazione.

 

“Straordinarie” è una sfida agli stereotipi di genere che trasforma il paradigma della donna-vittima in modello di riferimento culturale e politico. Protagoniste del nostro presente, hanno accolto l‘invito alla messa in scena del ritratto fotografico per fare di questa esposizione un corpo unico di volti e voci, una tessitura di memorie, confidenze e dediche.

- Renata Ferri, ideatrice e curatrice della mostra

 

Tra le tante donne ritratte ci sono Alessandra Ferri, Anna Bonaiuto, Concita De Gregorio, Elodie, Emma Bonino, Giovanna Botteri, Ilaria Capua, Ilaria Cucchi, Lella Costa, Liliana Cavani, Liliana Segre, Michela Murgia, Milena Gabanelli, Serena Dandini, Valeria Valente e tante altre personalità di cui alcune anche attiviste riguardo le criticità sulla condizione femminile.

Ogni foto è accompagnata da didascalie con breve biografia delle donne ritratte.

 

La mostra è parte della campagna “indifesa nata nel 2018 (una sorta di gioco di parola: in difesa di indifese), che Terre des Hommes porta avanti ormai da 12 anni per la protezione dei diritti delle bambine e delle ragazze in Italia e nel mondo, con progetti concreti sul campo tra cui anche iniziative di sensibilizzazione come questa mostra, rivolgendosi alle istituzioni e al grande pubblico.

 

Durante i giorni di apertura per le scuole verranno realizzati incontri e visite ad hoc e all‘interno del museo, la mattina del 6 ottobre, verrà presentato il XII Dossier indifesa, l‘annuale report pubblicato da Terre des Hommes, attiva dal 1960, sulla condizione delle bambine e delle ragazze nel mondo.

La mostra è stata realizzata grazie al prezioso sostegno di Deloitte con il patrocinio di Fondazione Deloitte, che ha sposato i valori promossi dal progetto ed è main partner dell‘iniziativa.

 

Foto di copertina

alcune tra le foto in mostra: Elodie, Alessandra Ferri e Serena Dandini; © Ilaria Magliocchetti Lombi

 

Straordinarie, protagoniste del presente

Ideata da Renata Ferri, fotografie di Ilaria Magliocchetti Lombi

Per Terre des Hommes

Spazio Extra MAXXI

Via Guido Reni, 4/A - Roma

dal 13 settembre al 6 ottobre 2023

Ingresso gratuito

Orari di apertura:

lunedì chiuso
da martedì a domenica 11.00 – 19.00

24.07.2023 # 6307

Marco Maraviglia //

Dorothea Lange, oltre 200 fotografie al Camera di Torino

Racconti di vita e di lavoro. Fino all‘8 ottobre in mostra una grande retrospettiva di Dorothea Lange

Migranti. Ci son sempre stati.

Da dove fuggono le persone, perché migrano, come vivrebbero se continuassero a restare nei loro territori? Facile dire «è la guerra e la povertà che li fanno andar via», ma dove sono i documentari che mostrano le vite all‘estremo di chi vuol scappare? Quante immagini riprese all‘interno dei centri d‘accoglienza abbiamo? Quante foto mostrano le condizioni di lavoro di chi ha lasciato famiglia e la propria terra? Esiste una filiera documentaria dal disagio in terra natia fino alla “sistemazione” finale del migrante?

 

Tra il 1931 e il 1939 in Canada e Centro America ci fu il Dust Bowl. Tempeste di sabbia causate da decenni di un‘agricoltura inadeguata. Mancanza di rotazione delle colture, terreni arati in profondità distruggendo l‘erba che garantiva idratazione e coesione. Terreni inizialmente fertili che si ridussero in polvere e sabbia e il forte vento ci mise il suo seppellendoli, devastando le case, i mulini, i granai furono abbandonati.

Ci fu un esodo di oltre mezzo milione di americani che restarono senza abitazione, senza terre e quindi senza più lavoro piombando nella totale povertà.

 

Dorothea Lange, proveniva dall‘esperienza di fotografa documentaria del periodo della Grande Depressione del 1929 che impattò economicamente anche sui ceti medi. Durante quel periodo immortalò gruppi di persone disoccupate in strada, gente che dormiva sull‘asfalto, senzatetto, file alle mense per poveri. Una tragedia umana i cui metodi di approccio per documentare con la fotografia gli effetti del Dust Bowl, furono analoghi.

Dorothea, con quel che divenne il suo secondo marito, Paul Taylor, iniziò a seguire l‘esodo da vicino per conto dello Stato della California. Le sue foto attirarono l‘attenzione del governo federale, che stava formando la Farm Security Administration (FSA) sotto il governo del presidente Roosvelt. L‘FSA faceva parte del programma New Deal, il piano economico per risollevare le popolazioni americane colpite dalla grande crisi. 

Dorothea Lange lavorò quindi più volte per la FSA ed oggi ci ritroviamo un patrimonio fotografico che documenta la crisi di quegli anni e che in parte sono in mostra al Camera di Torino.

Chiediamoci quali governi oggi incaricano i fotografi per documentare le trasformazioni sociali, del territorio per opera dell‘uomo o della natura. Chiusa parentesi.

 

Migrant Mother scattata nel 1936 è l‘immagine più conosciuta di Dorothea Lange. Ormai un‘icona di quell‘album dell‘immaginario collettivo dove vi sono le foto più famose del mondo.

Una giovane donna che mostra più dei suoi 32 anni, un volto sofferto per il dramma di aver perso tutto e trovarsi in un presente incerto. Si intravede un bambino tra le sue braccia e altri due le stanno vicini sulle spalle. Con i volti girati. Forse perché consapevoli di essere diventati “diversi”. Catapultati in una in un‘altra realtà, difficile, improvvisamente nomade.

Un‘icona, sì, ma tra le foto di Dorothea Lange ve ne sono ben altre che raccontano quel periodo.

Fattorie abbandonate sommerse dalla sabbia, baracche costruite alla buona con arredamento minimo, migranti a piedi in lunghe strade nel deserto con bagaglio essenziale in spalla, un cartello pubblicitario sembra prendersi gioco di loro con il claim “nex time try the train”, intere famiglie accampate in vecchi furgoni…

Dorothea Lange nel 1919 aprì uno studio come ritrattista. E quindi nei suoi reportage non potevano mancare anche i ritratti delle vittime dell‘esodo del Dust Bowl e dei momenti epocali che cambiarono l‘assetto economico americano.

Sguardi senza gioia, in quei ritratti. Persi nel vuoto. Impercettibili accenni di sorrisi e dove una chitarra o cuccioli di cani possono dare un senso alla vita che sarà.

E forse quell‘abilità di empatia ritrattistica si è maturata in seguito a due eventi che la segnarono: la poliomielite che le procurò un deficit permanente a una gamba e il padre che abbandonò la sua famiglia quando aveva appena 12 anni.

È fotografia documentaria. Quella di Dorothea Lange di cui John Szarkowski disse «per scelta un‘osservatrice sociale e per istinto un‘artista».

 

 

Dorothea Lange (dal comunicato stampa)

(Hoboken, 1895 - San Francisco, 1965)

Dorothea Lange si avvicina alla fotografia nel 1915, imparandone la tecnica grazie ai corsi di Clarence H. White alla Columbia University. Nel 1919 apre il proprio studio di ritrattistica a San Francisco, attività che abbandona negli anni Trenta per dedicarsi a una ricerca di impronta sociale e a documentare gli effetti della Grande Depressione. Fra il 1931 e il 1933 compie diversi viaggi nello Utah, in Nevada e in Arizona. Nel 1936 si unisce alla Farm Security Administration (FSA). All‘interno di questo progetto epocale realizza alcuni dei suoi reportage più famosi, nonostante alcuni contrasti con Roy Stryker (a capo della divisione di informazione della FSA) in merito alle proprie scelte stilistiche. Nel 1940 ottiene un Guggenheim Fellowship (un importante riconoscimento concesso ogni anno, dal 1925, dalla statunitense John Simon Guggenheim Memorial Foundation a chi ha dimostrato capacità eccezionali nella produzione culturale o eccezionali capacità creative nelle arti.). All‘inizio degli anni Cinquanta si unisce alla redazione di Life e si dedica all‘insegnamento presso l‘Art Institute di San Francisco. Muore nel 1965, a pochi mesi dall‘importante mostra che stava preparando al Museum of Modern Art di New York. Fra le esposizioni più recenti si ricordano Politics of Seeing al Jeu de Paume di Parigi nel 2018 e Words & Pictures al MoMA nel 2020.

 

 

 

 

Dorothea Lange. Racconti di vita e lavoro

a cura di Walter Guadagnini e Monica Poggi

Visitabile in contemporanea: FUTURES 2023: nuove narrative

a cura di Giangavino Pazzola

CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia

Via delle Rosine 18, 10123 - Torino www.camera.to

dal 19 luglio all‘8 ottobre

 

Orari di apertura (Ultimo ingresso, 30 minuti prima della chiusura)

Lunedì 11.00 - 19.00

Martedì chiuso

Mercoledì 11.00 - 19.00

Giovedì 11.00 - 21.00

Venerdì 11.00 - 19.00

Sabato 11.00 - 19.00

Domenica 11.00 - 19.00



Copertina:

Dorothea Lange Toward Los AngelesCalifornia, 1937 The New York Public Library | Library of Congress Prints and Photographs Division Washington

Foto sotto:

Dorothea Lange Destitute pea pickers in California. Mother of seven children. Age thirty-two. Nipomo, California, 1936 The New York Public Library | Library of Congress Prints and Photographs Division Washington



18.07.2023 # 6303

Marco Maraviglia //

Pasquale Palmieri fotografo di scena del cinema di Mimmo Paladino

Una mostra fotografica di Pasquale Palmieri a Villa Campolieto svela alcuni retroscena dell‘arte di Mimmo Paladino

C‘è qualcosa di cui molti non sanno.

L‘artista Mimmo Paladino, uno dei massimi esponenti della Transavanguardia italiana, quello della Montagna di sale in piazza Plebiscito nel ‘95, dei grandi cavalli stilizzati, dei “dormienti” che ricordano i resti dei pompeiani sepolti dalla lava, delle illustrazioni d‘arte dell‘Iliade e dell‘Odissea. L‘artista le cui opere sono tempestate di simbolismi arcani e universali. Quello che ritiene Don Chisciotte non un folle ma colui che riesce a guardare un mondo oltre che l‘uomo non è in grado di vedere e quindi metafora dell‘artista: «costruisce e inventa con la parola, con il segno e con il racconto un mondo che probabilmente esiste e che forse noi abbiamo perso la capacità di guardarlo».

 

Bene, molti forse non sanno che Mimmo Paladino tra colori, sabbia, pietra, tele, disegni e sculture, è anche autore di film. Ovvio, filmati d‘arte. Perché per lui il grande schermo è come una tela dove poter lavorare ed esprimersi utilizzando altri materiali: la musica e il suono, la coralità, la luce, i movimenti di macchina e quelli degli attori. Raccontando storie oniriche e surreali che toccano le corde dei sentimenti e dei pensieri del mondo terreno.

Artista a 360° quindi e, con i film Quijote (Don Chisciotte) e La Divina Cometa, raggiunge la vetta della sua espressione artistica in maniera totale.

 

E c‘è questa mostra di 45 grandi fotografie di scena a colori del cinema di Paladino scattate da Pasquale Palmieri, implementate da circa 40 fotografie in bianconero di backstage, che riservano non poche sorprese.

Immagini allestite, al primo piano di Villa Campolieto, non in senso cronologico, ma secondo tematiche, parallelismi tra un film e l‘altro di Paladino.

Quijote (2006), La divina cometa (2022), i corti Labyrintus (2013), Il Sembra l‘Alzolaio (2013) e Ho perso il cunto (2017) sono i filmati che Pasquale Palmieri ha seguito immortalando quelle fasi di lavorazione che normalmente restano segrete e sconosciute al pubblico: ciò che sta intorno la macchina da presa, le pause per decidere l‘inquadratura di una scena, il ripasso del copione, le prove fuori ciak, le chiacchiere tra attori, maestranze e Paladino. Che qui non considererei regista, ma un designer dell‘arte filmica. Perché dalle foto di Palmieri si evincono i dettagli delle scenografie e di oggetti di scena come le ali di un angelo che sono rami d‘orati, blocchi di ghiaccio, i suoi segni simbolici tipici, limbi di paesaggi senza tempo e altre invenzioni visive che rasentano o cavalcano il cinema surrealista e quello più recente di Fellini.

 

Le fotografie di Pasquale Palmieri non tendono a raccontare soltanto la cronaca di ciò che c‘è e avviene sul set, ma principalmente ciò che vede lui, ciò che lo incuriosisce, per comprendere le sue osservazioni in un dialogo con se stesso. Tende insomma a non ricostruire necessariamente, attraverso le sue fotografie, la storia dei film.

Perché le tipiche inquadrature girate dalla macchina da presa esistono già nel girato stesso. E allora va di controcampi, campi stretti, istanti che non vedremo mai nei film ma che arricchiscono la documentazione del lavoro di Paladino. Smaschera bugie del cinema, compiacendo lo spettatore che è ghiotto del “disvelamento dell‘inganno”.

 

Non di rado il regista si rammarica di non avere un buon controcampo che invece si ritrova nelle fotografie di scena. Insomma con la fotocamera si possono aggiungere alle bugie del cinema le proprie invenzioni: è un bel gioco, e a dirla tutta è il solo motivo per cui amo questo faticosissimo genere di fotografia!

- Pasquale Palmieri, conversazione con Maria Savarese

 

È sorprendente vedere in queste foto la presenza di Lucio Dalla e Francesco De Gregori al fianco di attori professionisti come Alessandro Haber o i fratelli Servillo. Contaminazioni artistiche che Palmieri non si fa sfuggire riuscendo a caratterizzarli, (de)contestualizzarli ed estraendone la loro personalità.

 

Pasquale Palmieri possiede 50.000 negativi e 100.000 fotografie digitali che documentano le ricerche del lavoro di artisti tra cui lo stesso Paladino, Luigi Mainolfi, Perino e Vele.

Un piccolo grande patrimonio archivistico della cultura contemporanea, tessera di quel grande mosaico degli archivi fotografici privati da conoscere, tutelare e valorizzare.

I suoi riferimenti fotografici non includono i maestri della fotografia di scena. La sua formazione si basa sull‘imprinting della letteratura, della pittura, musica e poesia che lo hanno appassionato. E di fotografi come Ugo Mulas, Luigi Ghirri, Chang Chao-Tang, Mark Coehn, Fan HoJosef Kudelka, Man Ray, Daido Moriyama, Robert Frank, Mario Dondero, Mario Giacomelli… tutti per motivazioni ben precise che hanno arricchito la sua formazione.

 

Incontrai Mimmo Paladino ai tempi dell‘università grazie ad un amico comune, che ci fece conoscere perché lui aveva bisogno di un fotografo per raccontare il suo ambiente, il suo modo di dipingere. Mi muovevo liberamente nel suo studio e ci andavo anche in sua assenza. Per me uno stage con il più grande fotografo del mondo non sarebbe stato più formativo della frequentazione di un grande artista. Il contatto con la creazione della bellezza mi bastava per definire la mia visione del mondo. Ho conosciuto l‘importanza del dubbio, dell‘incertezza, dell‘imperfezione, del vuoto che precede la creazione, del non finito, delle zone d‘ombra dell‘arte nel suo farsi.

- Pasquale Palmieri, conversazione con Maria Savarese

 

 

 

Il cinema di Mimmo Paladino. Fotografie di Pasquale Palmieri

a cura di Maria Savarese

Ercolano – Villa Campolieto
dal 22 giugno al 17 settembre 2023
dal martedì alla domenica dalle ore 10 alle ore 18

Il biglietto per la mostra è incluso nel biglietto di ingresso a Villa Campolieto acquistabile solo in loco al prezzo di 5 euro

 

Co-prodotta dalla Fondazione Campania dei Festival, Film Commission Regione Campania e dalla Fondazione Mannajuolo, presentata in occasione dell‘edizione 2023 del Campania Teatro Festival a Villa Campolieto ad Ercolano, grazie alla collaborazione dell‘Ente Ville Vesuviane


11.07.2023 # 6301

Marco Maraviglia //

L’URBEX di Stefano Barattini: Inside the factory

20 pannelli 100x70 che mostrano aree industriali in stato di abbandono

Stefano Barattini ha sempre avuto un certo interesse per le aree industriali, ma nel 2013 volle andare a vedere dove avevano costruito la Lambretta del 1961 che possedeva: l‘ex fabbrica Innocenti nella zona di Lambrate.

Da lì iniziò la sua URBEX (Urban Explorer) presso altre industrie abbandonate. In Italia e all‘estero.

 

Quei capannoni enormi pieni di vegetazione, lo scheletro di metallo, i vetri rotti e la ruggine mi hanno fatto amare questi luoghi e da lì ho cominciato.

 

Le fabbriche, le industrie manifatturiere, le miniere, chiudono perché sono soggette a processi economico-politici, cambiamenti sociali e al terziario che avanza. Non tutti gli imprenditori riescono a stare dietro alle variabili che il tempo impone, adeguando o riconvertendo le proprie aziende e purtroppo a volte, intraprendono la scelta strategica più semplice: delocalizzare.

O chiudere. Abbandonando capannoni, grandi edifici con dentro arredamenti, attrezzature, macchinari, documentazioni d‘archivio… tutto, di quegli edifici, spesso ubicati nelle periferie delle città, subiscono l‘improvvisa assenza umana.

E diviene archeologia industriale.

Fantasmi di vetrocemento, navate in ferro, silos, ciminiere, tutto dimenticato dal tempo e dove a volte la natura inizia a rimpossessarsi selvaggiamente di quegli spazi.

 

Stefano Barattini e l‘intera comunità che lavora sull‘URBEX, non rivela i luoghi ritratti nelle sue immagini. Per evitare sciacallaggi, furti di quel che resta, vandalismi, occupazioni illecite. Si tratta comunque di documentazioni visive che denunciano il mancato riutilizzo di queste aree. La mancata rigenerazione urbana di strutture che potrebbero diventare attrattive turistiche, mercati, spazi d‘arte, parchi.

 

È un modo per documentare queste realtà e restituirle come memoria storica e al tempo stesso porre l‘attenzione su una possibile riqualifica del territorio.

La mia ricerca non è solo fotografica. Quando vado in una determinata location, mi documento sulla sua attività del passato e qual era il processo produttivo. Cerco, per quanto possibile, la sua storia: quando ha iniziato, quando ha chiuso e perché.

 


Alcuni di questi luoghi li ha trovati spulciando su Google map. Talvolta effettua sopralluoghi che gli servono anche a individuare gli orari per fotografare con la luce migliore. Si confronta con la comunità Urbex per attingere ulteriori informazioni e non sempre preferisce andarci da solo per questioni di sicurezza.

 

Non è possibile avere autorizzazioni per entrare in questi spazi. Non te le danno perché qualunque cosa succeda la responsabilità è sempre della proprietà. Solo in rarissimi casi ci possono essere delle visite guidate ma in quei casi non hai la libertà di movimento per fotografare in maniera autonoma con i punti di vista e i tempi giusti.

Sebbene abbia iniziato a utilizzare un drone dalla fine del 2018, le fotografie di Barattini esposte in questa mostra sono tutte realizzate “con i piedi a terra”. È un genere di fotografia che non raramente i fotografi post-producono forzando col filtro HDR. Ma Barattini no. Cerca di lasciare nella massima naturalezza i suoi scatti.

 

Non uso HDR, cerco sempre di lasciare la luce così come entra nei locali. Anche se a volte le alte luci sparano, ma quella è, entra di prepotenza nell‘oscurità. Ma in diversi casi se la differenza tra luce e ombra è troppo marcata effettuo due scatti che poi sommo in post produzione, uno per le ombre e uno per le luci.

 

Ha ripreso circa 123 siti industriali in Italia e all‘estero tra cui piccoli laboratori, grandi aziende, centrali elettriche, siti di stoccaggio.

Tutte immagini riprese “a piombo”, linee cadenti perfettamente verticali che i primi tempi correggeva in Photoshop perché portarsi un banco ottico per i basculaggi in questi luoghi non è convenientemente pratico.

Poi decise di dotarsi di un decentrabile 15mm e la musica è decisamente cambiata, fotograficamente.

Auspicando che la musica cambi anche per questi luoghi affinché siano rivalutati.

 

Bio

Stefano Barattini nasce a Milano il 4 gennaio 1958.

Studia alla Facoltà di Architettura presso il Politecnico di Milano.

Inizia a fotografare nel 1979, quando ha cominciato a viaggiare e legato indissolubilmente la fotografia al viaggio.

Dal 1990 e per circa 5 anni, collabora con la rivista Mototurismo e Scooter Magazine.

Dopo una pausa di riflessione, nel periodo in cui stava nascendo l‘era digitale, ha ripreso la fotografia adattandosi alle nuove tecnologie, sempre legandola ai viaggi soprattutto in Africa.

L‘architettura (con particolare interesse per il periodo razionalista) e gli spazi suburbani in continua crescita dove la presenza umana, nei suoi scatti, è quasi sempre assente, sono temi che tratta periodicamente.

Dal 2013 ha iniziato la sua ricerca URBEX.

Pubblica Oltre la fabbrica nel 2015; nel 2017 Portraits of Dust distribuito dalla Hoepli e nel 2019 Bauhaus 100, a tiratura limitata, a cura di Foglio Clandestino.

Numerose le sue esposizioni di immagini dell‘Africa, di architettura e luoghi abbandonati.

 

 

Inside the factory, di Stefano Barattini

Academy Franco Angeli Bicocca

Viale dell‘Innovazione, 11 – Milano

mart/merc/giov dalle 15.00 alle 18.00

dal 19 giugno al 28 luglio 2023


04.07.2023 # 6299

Marco Maraviglia //

Vittorio Pandolfi e la Procida di un tempo

In mostra fino al 21 luglio al Palazzo della Cultura fotografie di Procida dal 1957 al 1980

1957. L‘isola di Arturo di Elsa Morante vince il Premio Strega. Nello stesso anno Antonio Scarfoglio chiede al ventiseienne Vittorio Pandolfi di andare un giorno a Procida, dall‘alba al tramonto, per realizzare un reportage fotografico dell‘isola. Foto destinate a un giornale dell‘Ente Provinciale per il Turismo.

Pandolfi scattò due rullini 120 Ektachrome con la sua Rolleiflex. Per un totale di 24 foto.

Erano i tempi in cui Procida era ancora la Cenerentola del Golfo. Nessuno avrebbe mai immaginato che nel 2022 sarebbe stata Capitale della Cultura. Forse la presenza del carcere borbonico, dismesso solo nel 1988, era un deterrente per il turismo.

E nessuno avrebbe mai immaginato che Marina Corricella, il “quartiere bello” di Procida, sarebbe divenuta un‘attrazione per gli amanti del turismo gastronomico a base di specialità di pesce con i profumi delle cucine che salgono fin sopra le rampe di accesso.

E pensare che persino durante il Grand Tour era ignorata. Perché erano preferite Capri e Ischia.

 

Le foto di Vittorio Pandolfi ci restituiscono quella Procida neorealista fatta di atmosfere silenziose, genuine, isolane, dove al massimo d‘estate ci villeggiavano puteolani o napoletani e i pochi appassionati dell‘epoca. Le barchette erano a remi, non c‘erano gli affollati attracchi da diporto, non c‘erano le Ape car che scorrazzavano da una parte all‘altra dell‘isola, si incrociava qualche pollaio lungo i cigli delle stradine perché non si temevano i furti di galline. Architetture spontanee, nuclei abitativi incastonati l‘uno sull‘altro, scale a collo d‘oca, capitelli dei pilastri fatti a scalini, terrazzini sovrastati da archi, volte a botte, a vela e a padiglione, muri smussati, case rurali su rocce tufacee e circondate dal verde…

Testimonianze di un paesaggio quasi scomparso.

Un tuffo nel passato per gli amanti di Procida. O comunque fotografie da vedere per chi la conosce solo per com‘è oggi.

 

Gli anni delle vacanze a Procida sono suggellati dalle foto che mio padre scattava durante le passeggiate estive.

Passeggiate alla scoperta dei luoghi di un isola, non  solo spiaggia, vacanze e mare ma un insieme di luoghi a noi sconosciuti, nascosti e non intaccati dal turismo di massa.

Papà ci portava in giro nei pomeriggi estivi alle Centane, alla Corricella, nei vicoli della Chiaiolella e con sé aveva la Rolleiflex; in queste foto private sono conservati  scatti  di scene familiari e impressioni di quei luoghi di vacanza.

Per noi, bambini, cresciuti al Vomero tra strade cittadine piene di negozi, Procida si rivelava un‘altra realtà di vita, una dimensione in cui si poteva camminare scalzi, liberi dalla paura di essere investiti, in luoghi che non sempre erano vissuti dai villeggianti.

- Donatella Pandolfi

 

Parte delle foto dell‘Archivio Fotografico Vittorio Pandolfi sono raccolte anche nel catalogo Procida nello sguardo di Vittorio Pandolfi. Trentanove fotografie a colori e bianconero. Prese dal 1957 al 1980.

Una casa di pescatori sulla spiaggia della Chiaiolella. La domenica mattina a Marina Grande si passeggiava abbigliati con eleganza. Cittadina da sempre cat friendly. Case colorate. La Baia del Carbogno in bianconero lascia immaginare la ricchezza del colore del paesaggio. Gli scorci da Centane…

Uno spaccato paesaggistico, architettonico, urbanistico che ci accompagna in una poesia visiva di quello che è considerato un set cinematografico a cielo aperto.

 

Bio

Vittorio Pandolfi (Napoli 1931) adotta la fotografia come strumento indispensabile per la sua attività di studente di architettura già dai primi anni Cinquanta e poi come designer e grafico pubblicitario.

Collabora con Roberto Pane, come studente del corso, per le foto e i rilievi del libro Ville vesuviane del settecento, edito nel 1959.

Fornisce foto per articoli di riviste turistiche già dal 1956, di Procida, Ischia, Positano, Sorrento e Costiera ed anche dei viaggi in Germania e a Venezia. Nel frattempo apre un studio grafico a via Guantai Nuovi.

Negli anni ‘60 a Napoli fonda con Bruno di Bello lo studio grafico DP2  attivo fino alla fine degli anni ‘70.

Nel 1962 ha la cattedra di progettazione Arte Stampa all‘Istituto statale d‘arte Filippo Palizzi di Napoli e continua a fotografare utilizzando il banco ottico per l‘indagine di luoghi e periferie napoletane.

Pubblica tre libri con Ernesto De Martino, studioso delle ville vesuviane.  L‘ultimo, del 2013, è dedicato ai suoi scatti degli anni‘50: L‘architettura, il paesaggio, l‘ambiente delle ville vesuviane nelle fotografie di Vittorio Pandolfi, catalogo della mostra tenutasi al Palazzo Reale di Napoli nel 2011.

 

 

Procida 1957 / 1980 nello sguardo di Vittorio Pandolfi

Palazzo della Cultura, ex conservatorio delle orfane nel borgo di Terra Murata

dalle ore 10 alle ore 13.30 e dalle ore 16.00 alle ore 18.00 (probabile apertura fino alle 19/20 da luglio con gli orari estivi della casa di Graziella)

dal 21 giugno al 21 luglio 2023


Copertina: © Archivio Fotografico Vittorio Pandolfi

Foto a sinistra: Chiaiolella, casa di pescatori - 1957

Foto a destra: Ruderi di S. Margherita nuova, vista di Terra Murata e l‘Abbazia - 1957

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