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02.05.2024 # 6418

Marco Maraviglia //

Piero Corvo e il Vietnam visto da lui

Il 3 maggio inaugura all‘A‘Mbasciata Fragments in collaborazione con il Consolato della Repubblica Socialista del Vietnam

In uno degli spazi più affascinanti di Napoli, dal 2016 officina e trampolino di lancio di artisti emergenti, lì dove il burlesque, feste a tema e serate vintage allietano gli ospiti, Piero Corvo espone cinquanta fotografie 30x45 sul Vietnam.

 

Il progetto presentato da Piero Corvo fa parte di due lavori distinti sul Vietnam che riprendono l‘aspetto tradizionale del Paese e quello più moderno che è ancora in progress.

Il primo lavoro è stato esposto in occasioni non aperte al pubblico: per il Bridging Vietnam-Napoli Forum, un evento celebrativo in occasione dei cinquant‘anni di amicizia e partenariato tra Italia e Vietnam, presso il Grand Hotel Santa Lucia di Napoli e all‘Institut Français Napoli, organizzata nell‘ambito delle Giornate internazionali della Francofonia 2024.

 

In esposizione, e solo per tre giorni, ci sono le fotografie della prima parte, quella con gli aspetti tradizionali del Vietnam, con immagini scattate in luoghi lontani dalle grandi città e realizzate nel 2023.

 

Il Vietnam è una terra di mistero e bellezza, una sinfonia in continuo movimento, una finestra aperta sulla vita. Questa mostra non ha l‘intenzione di imporre una narrazione predefinita o di comunicare una storia specifica. Al contrario, invita il pubblico a esplorare i luoghi e a creare le proprie storie e interpretazioni dietro ciascuna foto. Ogni immagine esposta rappresenta un frammento della vita quotidiana nel Vietnam più tradizionale, catturato in modo autentico e spontaneo. Si tratta di istanti fugaci, gesti, sguardi e scenari urbani che possono ispirare diverse emozioni e riflessioni in ognuno di noi. Questa mostra è un invito a immergersi nella bellezza e nella complessità di un paese, non c‘è una trama predeterminata da seguire, ma piuttosto una tela aperta su cui dipingere la propria immaginazione.
- Piero Corvo

 

Fu una “sporca guerra” quella in Vietnam, durata venti anni e che terminò ufficialmente nel 1973. Di fatto nel ‘75.

Non è che le altre guerre siano “pulite”, ma oltre un milione e mezzo di vietnamiti morti, senza contare le vittime degli eserciti che si schierarono, fanno bene intendere la portata di quell‘incubo che coinvolse emotivamente l‘opinione pubblica occidentale. E ricordiamo tutti la foto di Nick Ut che ritraeva la bambina scottata dal napalm mentre correva e che fece il giro del mondo alimentando l‘indignazione internazionale.

Probabilmente fu l‘unico periodo in cui decine di artisti si schierarono contro una guerra generando le cosiddette canzoni di protesta. Da Bob Dylan a Jim Morrison, da Crosby Still Nash & Young ai Deep Purple, Joan Baez, John Lennon, Arlo Guthrie e altri ancora.

La versione teatrale di Hair nel ‘67 raccontava il dramma dei ragazzi americani, pacifisti e impauriti dall‘arruolamento.

Make love not war, fate l‘amore non fate la guerra era il claim nato negli anni ‘60. E quando tutto finì, il cinema iniziò a raccontare gli effetti devastanti che provocò sotto il profilo sociale, umano, psico-fisico: Tornando a casa, Il cacciatore, Taxi driver, Rambo… ma anche film indipendenti politically incorrect che trasversalmente erano metafore della sistematica distruzione dei villaggi vietnamiti come Soldato blu o Piccolo grande uomo, entrambi del 1970.

 

Ma qui non stiamo a rimuginare sugli orrori storici causati dall‘uomo. Il Vietnam si è rialzato. Risorge dalle ceneri come l‘Araba Fenice. Oggi è uno Stato economicamente aperto ai mercati di tutto il mondo con grandi abilità diplomatiche ed è considerato quindi una delle principali “tigri asiatiche”.

All‘inaugurazione sarà presente il Console che probabilmente potrà raccontarci nuovi e piacevoli aspetti del Vietnam illustrando il progetto fotografico e per promuovere il turismo in Vietnam.

Le fotografie di Piero Corvo non le ho viste tutte perché, come già scritto, sono inedite. La mostra sarà l‘occasione giusta per farsi raccontare il suo viaggio.

Perché mi piace respirare l‘odore del Vietnam nella sua veste contemporanea alla sera osservandone le foto all‘A‘Mbasciata.

 

 

Bio

Piero Corvo, è nato a Napoli nel 1996.

Pur lavorando come Partnership Manager nel reparto marketing di un brand di moda streetwear, la fotografia rappresenta per lui il centro del mondo attorno al quale ruota tutta la sua esistenza.

Appassionato di fotografia documentaristica e reportage, raccontare una storia attraverso le immagini o per il suo lavoro, lo fa sentire in sintonia con la sua vita.

Coltiva da sempre l‘amore per il cinema che è stato l‘imprinting fondamentale per avvicinarsi alla fotografia.

Autore di progetti fotografici come un reportage ad Hebron in Palestina esposto in diverse mostre.

Sul sito raccoglie i suoi lavori improntati principalmente sull’aspetto umano.

 

 

Fragments, una mostra fotografica sul Vietnam

di Piero Corvo

3-4-5 Maggio 2024

Vernissage venerdì 3 maggio ore 21.00

Sabato 4 e domenica 5 maggio ore 16.00-00.00
Luogo: A‘mbasciata – Via Benedetto Croce, 19 – Napoli

16.04.2024 # 6411

Marco Maraviglia //

Some People. Opere dalla collezione di Ernesto Esposito

Diciotto fotografie e due serigrafie che raccontano i cambiamenti dell‘arte e della vita contemporanea

Questa è una storia della storia. Di quelle che accadono quando ci sono persone che hanno voglia di raccontare, trasmettere conoscenze sui saperi dell‘arte visiva che ha subito trasformazioni riflettendo la civiltà e cultura che scorrono.

Questa è una storia della fotografia contemporanea i cui contenuti richiamano i gusti, l‘estetica, la poetica dei tempi che abbiamo vissuto. E quelli che stiamo vivendo.

Questa è una storia sulla bellezza del collezionismo che condivide la grande bellezza.

Sì, sono venti immagini di grandi autori che hanno determinato punti di passaggio dell‘arte. Fotografi che, chi negli anni, chi da subito, sono approdati nell‘Olimpo delle iconografie splendidamente quotate.

 

Questa storia, ma chiamiamola mostra dai, nasce dal rapporto decennale di collaborazione tra il collezionista Ernesto Esposito e la storica dell‘arte e curatrice Maria Savarese.

Il collezionista vive un po‘ nell‘ombra. Alle inaugurazioni gran parte del pubblico non lo conosce e a volte non si rende nemmeno conto che l‘evento ha luogo grazie al suo lavoro di ricerca e accumulazione che dura per anni. Il collezionista in fondo è il protagonista di alcune mostre. Senza di lui molte opere non sarebbero custodite e fruibili.

La collezione Ernesto Esposito nasce nel 1971, quando acquistò la sua prima opera dal gallerista Lucio Amelio: Electric chair (1964), una serigrafia di Andy Warhol.

Da lì non si è più fermato aggiungendo al proprio patrimonio opere di altri artisti contemporanei. Non in maniera compulsiva ma seguendo il tempo che caratterizzava le opere, appassionandosi agli artisti che via via conosceva personalmente e vantando amicizie con Cy Twombly, Joseph Beuys, Andy Warhol, Helmut Newton. Solo per citarne alcuni.

 

Per Ernesto Esposito il collezionismo non è ostentare ma è una forma di mecenatismo. Sostenere gli artisti e l‘arte rendendola pubblica, fruibile attraverso i prestiti.

 

Stilista di fama internazionale, che ha da sempre collezionato opere dei più grandi artisti contemporanei spaziando dalla fotografia all‘installazione, dalla pittura al video fino a opere monumentali, con una grande poliedricità e intuito anticipatore.

 

Per la prima volta a Milano sono esposte alcune opere della collezione Esposito. Diciotto fotografie di fotografi contemporanei e due serigrafie di Andy Warhol.

David Bailey, Matthew Barney, Larry Clark, Luis Gispert, Robert Mapplethorpe, Helmut Newton, Jack Pierson, Richard Prince, Herb Ritts, Ugo Rondinone, Sterling Ruby, Francesco Scavullo, Cindy Sherman, Hank Willis Thomas, Qingsong Wang, Andy Warhol, Bruce Weber, Joel Peter Witkin, la mostra racconta e analizza l‘arte dei giorni nostri, da un punto preciso di rottura degli schemi sociali, sessuali e di identità di genere.

Sono opere che sembrano non avere un nesso tra loro ma il cui filo che le lega è invece caratterizzato dai diversi linguaggi dell‘arte contemporanea che Ernesto Esposito ha intercettato negli anni.

 

Come in un‘antica quadreria di una dimora del passato, le venti opere esposte raccontano, attraverso i personaggi ritratti, le contraddizioni e le inquietudini del nostro tempo, permettendo di individuare una serie di tematiche aggreganti, come la quotidianità e la sua parodia, l‘erotismo e il sesso, l‘identità e la non identificazione di genere, l‘alienazione sociale, i miti immortalati in eterno, mediante un vocabolario di parrucche, cosmetici, tinture per capelli, chirurgie plastiche, piercing, tatuaggi, corpi scolpiti e manipolati.

 

 

Mappa descrittiva delle opere esposte a cura di Maria Savarese:

 

Matthew Barney con Cremaster 2: The Ballad of Gary Gilmore incentra la sua allucinata struttura narrativo – estetica sulla vita e sulla mitologia che caratterizza la figura di Gary Gilmore, interpretato dall‘artista stesso e sull‘ipotesi affascinante che Gilmore possa essere il nipote illegittimo di Harry Houdini.

Larry Clark, fra i più importanti e influenti fotografi della sua generazione, con la serie Tusla, fa di questa provincia degli States in cui è nato, il simbolo per raccontare le frustrazioni, le devianze, gli abusi e le repressioni di ragazzi disadattati, di giovani adolescenti borderline, disillusi e vulnerabili.

Luis Gispert, focalizzandosi sulla cultura giovanile cubano - americana e sull‘hip hop, con Wrestling Girls attualizza la statuaria antica dell‘Ercole e Anteo del Pollaiolo, riproponendone la posa ed il dinamismo nelle due ragazze ritratte.

La fotografia di Robert Mapplethorpe, Ken Moody, è fra le sue opere più conosciute e rappresentative. Il soggetto, come nella statuaria classica, grazie al carattere formale della composizione ed all‘utilizzo magistrale delle luci e delle ombre, perde qualsiasi riferimento identificativo di natura sessuale o temporale.

Don‘t interrupt the sorrow di Jack Pierson, fra i massimi esponenti con Nan Goldin della cosiddetta Scuola di Boston, rientra nella straordinaria produzione fotografica dell‘artista, in cui elementi della vita quotidiana, frammenti di paesaggi urbani, nature morte ed oggetti ordinari, ritratti di persone incontrate anche per strada, sono fra i suoi temi prediletti.

Con New Portraits Richard Prince mette in evidenza l‘elemento chiave della sua poetica, ovvero il riappropriarsi di immagini tratte dal mondo dei mass media e della pubblicità, ridefinendo, così, il concetto di autorialità. Il soggetto dell‘opera, infatti, è un‘immagine scaricata da internet nella sua totalità: le didascalie, i likes, tutto portato al grado zero dell‘informazione.

Herb Ritts, fra i più grandi ed importanti fotografi del secolo scorso, è autore di opere di grande eleganza formale che ritraggono spesso famose personalità del mondo del cinema, della moda, della musica e della società contemporanea. Come nel caso di Mick Jagger, dove è sufficiente il nome ricamato sulla pettorina argentata per evocare il volto assente e il mito del leader dei Rolling Stones.

Ugo Rondinone, che utilizza diversi media, dalla pittura, al disegno, dalla scultura, al video ed alla fotografia, mostrando particolare attenzione e sensibilità verso tematiche di identità sessuale ed emancipazione delle categorie LGBT in rapporto alla società contemporanea, in I don‘t live here anymore altera ironicamente l‘immagine di una modella alla quale sostituisce il volto con il proprio.

Sterling Ruby in Physicalism the Recombine 1 ritrae una donna con il corpo scolpito dai muscoli ed il volto nascosto che si sovrappone ad un‘altra immagine riferita ad un interno, con cui non c‘è alcun rapporto o possibilità di comunicazione.

Storico fotografo di “Vogue”, “Harper‘s Bazaar”, “Rolling Stone”, Francesco Scavullo ha ritratto nei lunghi decenni della sua attività, celebrità come questo Harnold Schwarzenegger agli esordi della sua carriera.

L‘opera di Cindy Sherman, Untitled #334, unendo performance e fotografia, attraverso l‘autoritratto ed il travestimento, ironizza sugli stereotipi imposti alle donne dalla società e dalla cultura, generando un forte senso di turbamento ed impatto emotivo in chi osserva.

Con Requesting Buddha, Wang Qingsong analizza il rapido cambiamento che la società cinese sta vivendo ormai da decenni, come attestano i marchi Coca Cola e Marlboro presenti nell‘opera, evidenti riferimenti ai beni di consumo occidentali diffusi nel suo paese.

Le due serigrafie di Andy Warhol Mark Leibowitz e Nico Williams, sono fra le opere più importanti e conosciute del grande artista pop, così come l‘Olimpic Games di Bruce Weber, il quale, sin dagli anni Ottanta, ha proposto un‘immagine di uomo americano bello, sano, sportivo e giovane, come il ginnasta Marc Caso protagonista della foto.

In Who can say no to a Gorgeous Brunette? H. Willis Thomas affronta il tema del pregiudizio razziale e politico, fotografando Angela Davis, attivista politica, femminista appartenente al movimento Black Panters degli anni Sessanta.

L‘uomo travestito e mascherato in indumenti intimi e bendaggi, che Joel P. Witkin ritrae nella fotografia Woman, ribalta il concetto stesso di femminilità, rientrando nella moltitudine dei suoi personaggi macabri, figure di nani, transessuali, deformi, che popolano il mondo dei freak show e che lui sapientemente rende icone di una bellezza altra, spesso in rapporto all‘arte del passato, in special modo quella rinascimentale.

I ritratti di Ernesto di David Bailey ed Helmut Newton, sono soltanto alcuni fra i numerosi realizzati.

 

 

Bio

Designer di scarpe ed accessori, Esposito vanta una lunga e prestigiosa carriera con le griffe ed i brands del lusso a livello internazionale. Ha esordito negli anni Settanta con Thierry Mugler by Linea Lidia ed ha affiancato per i successivi quindici Sergio Rossi, il più importante produttore di scarpe del mondo. I decenni seguenti lo hanno visto accanto a Marc Jacobs durante la direzione creativa di Louis Vuitton a Parigi, città dove lui già collaborava con i marchi Sonia Rykiel, Chloè, Missoni, Alessandro dell‘Acqua. Nel 2004, per ben undici anni, inizia il suo rapporto con Karl Lagerfeld, come shoes designer da Fendi. Premiato nel 1998 come Designer of the Year dalla rivista americana “Footwear New”, è entrato nel 2006 nella HALL OF FAME per le calzature.

 

 

Some People. Fotografia dalla collezione Ernesto Esposito

dal 5 aprile al 10 giugno 2024

a cura di Maria Savarese

Other Size Gallery, presso lo spazio polifunzionale Workness Club

Via Andrea Maffei, 1 – Milano

ingresso gratuito

Lunedì - venerdì dalle 10.00 alle 18.00

                                  

Contatti:

info@workness.it

+39 02 70006800

 

Foto di copertina: © Robert Mapplethorpe

Foto sotto: © Cindy Sherman



03.04.2024 # 6406

Marco Maraviglia //

Francesca Sciarra ‘Na topografia – La linea immaginaria

Gli indefinibili confini della Città Metropolitana di Napoli in mostra

Per questo progetto Francesca Sciarra ha percorso principalmente a piedi ma anche in bicicletta la linea di confine della Città Metropolitana di Napoli. A volte ritornando su alcuni luoghi.

 

Con le Città Metropolitana è come se si fossero buttate giù le cinte murarie immaginarie ma pur restando burocratiche tra città e province.

Costeggiando i confini dei quattordici comuni che circondano Napoli, coast to coast, da Bagnoli che confina con Pozzuoli al confine con il Comune di Portici, affacciandosi su Quarto, Marano, Melito, Mugnano, Arzano, Casavatore, Casoria ecc., Francesca Sciarra ha immortalato alcuni punti di questa linea “separatoria” a volte riconoscibile solo da indicazioni stradali. Dove non c‘è filo spinato a definire un confine, ma solo strade o i lati delle facciate di edifici. Quelli che affacciano sulla Città Metropolitana ma che in realtà appartengono al Comune adiacente. Sono zone in cui a volte possono esserci conflitti di competenza per lo spazzamento o forse per altri servizi.

 

È una storia fotografica di confini. Alla ricerca di essi e di una loro improbabile identità. Cercando di capire dove sono, quali sono, cosa definisce i confini. Quanto siano riconoscibili, se lo sono. Cosa cambia, se cambia qualcosa, tra di qua e di là delle coordinate GPS di un navigatore che indica dove ci si trova.

Il muretto di un villino, un recinto in lamiera, l‘accesso a un campo agricolo, un vecchio mercato abbandonato, elettrodotti aerei, tutto e nulla può trovarsi a cavallo della Città Metropolitana.

Cercavo recinzioni, cancelli e altri tipi di separazioni che potessero dare l‘idea del confine.

Ma ho fotografato anche edifici che mi colpivano, terre coltivate, elementi religiosi, cose strane come la barca in mezzo alla vegetazione incolta di Marano.


Il risultato è che le immagini, se non fossero abbinate ai dati GPS, mostrano l‘assenza delle differenze tra un Comune e l‘altro. Come se in realtà non esistesse un confine.

 

Questo di Francesca Sciarra è un lavoro che fa riflettere sul paradosso dei confini, potenzialità e la loro inutilità fisica.

In effetti i confini li abbiamo inventati noi uomini, incapaci di condividere lo spazio in cui viviamo.

Gli animali non mettono paletti, filo spinato, non disegnano cartine geografiche politiche o catastali.

Il confine limita. È un blocco sulle contaminazioni che invece sono quelle che possono evolversi in benessere collettivo.

Lo scambio di idee, di culture, in un contesto senza confini, rende la crescita più rapida. Libera. Se si avesse a cuore il bene comune e il rispetto dei propri simili. Condividendolo, senza sopraffazioni. Senza badare unicamente alla proprietà, al profitto. Ma questa è un‘altra storia.

 

La mostra, ‘Na topografia – La linea immaginaria, si svolge presso uno spazio polifunzionale accogliente e suggestivo di Ottaviano.

In una sala la cartina geografica con sopra alcune anteprime delle immagini applicate, rende la veduta di insieme del percorso effettuato da Francesca Sciarra.

Le fotografie sono state volutamente scattate in giornate con sole velato o con cielo grigio. Stinte, sbiadite, come quello stesso confine esplorato, indefinibile, immaginario, dall‘apparenza insignificante ma che racconta un macrocosmo di situazioni non dette, che ci sono ma impalpabili, ibride, anonime. Luoghi figli di un Dio minore.

È ‘Na topografia, ‘Na come “una” in napoletano o inteso anche come “Napoli”. Un rilievo topografico fatto senza teodolite, tacheometro, stadie e livelli, gli strumenti indispensabili del topografo, ma con l‘ausilio della fotografia e di coordinate GPS poste in calce alle stesse foto. Un racconto di confini ma ai confini di un limbo.

 

La Napoli che tutti conoscono, quella solare e mediterranea, quella rumorosa e folkloristica, persino quella nera e violenta, svanisce quando ci si avvicina ai confini, e si trasforma in un limbo anonimo, in una terra di nessuno di cui nessuno si cura. I paesaggi sono caratterizzati da qualcosa che manca, da spazi vuoti, da paradossi architettonici. La campagna, a tratti, insegue la città in un groviglio di muri, cancelli e recinzioni che non dividono più nulla.

 

 

Bio

Francesca Sciarra vive e lavora a Napoli. Ha iniziato giovanissima a fotografare e stampare in camera oscura. Dal ‘97 la fotografia è la sua professione.

Dalle news ai viaggi e al trekking, per 14 anni ha lavorato nel fotogiornalismo collaborando con varie testate e agenzie fotogiornalistiche, sia come autrice di testi sia come fotografa, diventando nel ‘99 giornalista pubblicista. Oggi si dedica alla fotografia di stock e documentazione geografica, e alla fotografia di famiglia.

Dal 2009 svolge attività legate alla fotografia all‘interno del collettivo Photonapoli da lei ideato.

Ha scritto più di cinquanta articoli nel campo geo-turistico per riviste di viaggio, monografie e guide tematiche. Ha partecipato a più di venti mostre fotografiche, tra personali e collettive.

La passione per il paesaggio urbano è il leitmotiv della sua ricerca personale.

 


 

‘Na topografia – La linea immaginaria

di Francesca Sciarra

Rassegna di fotografia al femminile Adrenaluna a cura di Tiziana Mastropasqua

ETC Officine Culturali

via Carmine 20, Ottaviano (NA)

dal 24 marzo al 21 aprile 2024

finissage 21 aprile ore 11.00

visitabile su prenotazione telefonando al 371 6313548



21.03.2024 # 6404

Marco Maraviglia //

Le destrutturazioni di Francesco Chiarenza

Da scultore di marmo a scultore di fotografie

Francesco Chiarenza è nato a Comiso in Sicilia il 27 febbraio 1944 dove consegue l‘Attestato di Licenza in Decorazione Plastica. Con un gruppo di compagni si trasferì a Perugia per ottenere il diploma di Maestro d‘Arte in Marmo e Pietra. Successivamente vinse una borsa di studio per quattro anni per frequentare l‘Accademia di Belle Arti, ma vi rinunciò per seguire un corso di due anni all‘Istituto Statale d‘Arte di Napoli per conseguire il diploma di Magistero e poter insegnare.


Fu allievo dello scultore Lelio Gelli che lo tenne sotto la sua ala trasmettendogli tecniche e segreti della scultura.


Finalmente iniziò a insegnare: in Sardegna.

Tornò poi a Napoli per insegnare all‘Istituto Palizzi grazie a una segnalazione di Lelio Gelli. Per meriti.

Perché negli anni ‘60-‘70, per l‘insegnamento negli istituti d‘arte, c‘era bisogno della chiara fama.

Al Palizzi era docente di scultura dove insegnò la lavorazione di marmo e pietra. Andò in pensione come docente di disegno professionale e progettazione e con relativa direzione del laboratorio dove gli allievi realizzavano ciò che disegnavano.


Francesco Chiarenza fa parte di quell‘epopea di artisti che frequentava, e con alcuni sta ancora in contatto, come Vittorio Pandolfi, Aulo Pedicini, Eduardo Alamaro, Enrico Cajati, i fratelli Luigi e Rosario Mazzella, Gaetano Gravina. Un ricco serbatoio di energie e conoscenze condivise.

 

Nel frattempo fotografava con una vecchia macchina a soffietto, imparò la pratica di camera oscura per stampare le proprie foto in bianconero che scattava a sculture e oggetti di design.

 

Una vita da curioso e sperimentatore. Negli anni ‘70 disegna e realizza vetrate artistiche, oggetti di design, lampade, vassoi, specchi. Progetta giardini per alcuni amici fin quando negli anni ‘80 inizia a smanettare su un programmino della Apple per il ritocco delle immagini.

Oggi ha ottant‘anni di mente fresca che gli ha consentito di non perdere il treno delle tecnologie digitali.

 

Cominciò a usare il Photoshop e solo da qualche anno ha iniziato la sua ricerca di destrutturazione delle immagini fotografiche dopo qualche indicazione del figlio Stefano.

Chiarenza realizza immagini le cui composizioni richiamano gli effetti dei lavori di Agostino Bonalumi o, talvolta, quelli di Enrico Castellani.

 

Se non c‘è si può immaginare. Se non si vede si può osservare perché a volte anche l‘astratto può ingannare: potrebbe non essere astratto in senso lato. Ci sono figure astratte che nascono esclusivamente da un concetto basato sulla poetica di un artista, sul loro concetto espressivo, dalla pulsione emozionale dell‘artista. Ma possono esserci immagini indefinite, blur, che partono dalla realtà. Modificate, manipolate, smontate, destrutturate.

Non è importante che le fotografie destrutturate di Chiarenza partano da immagini di soggetti reali da lui scattate o di altri, scaricate dalla rete. Perché gli interventi di elaborazione digitale le trasformano per ottenere altre visioni. Interpretazioni che dilatano, contraggono scene, restituendo percezioni oniriche, come realizzate da un caleidoscopio anarchico.

Immagini che incuriosiscono, sulle quali ci si sofferma per cercare di intercettare elementi della realtà, stentare nel riconoscere un dettaglio di partenza. Come sogni che ricordi di aver fatto ma di cui non riesci a ricostruire la loro logica e la storia.

Mondi nuovi, come paesaggi di fantascienza o metafisici, colori elettrici, shocking, immagini dinamiche che suggeriscono un movimento in spazi indefiniti dove il primo piano a volte non è che lo sfondo.

È l‘immaginazione creativa di un 80enne che non cerca gloria ma è bello sapere che c‘è, come un “perfetto sconosciuto”.




21.02.2024 # 6394

Marco Maraviglia //

DRAMA. Cesare Accetta, un manipolatore della luce in mostra

Dopo otto anni dall‘ultima mostra, torna Cesare Accetta. Al Blu di Prussia

Fino al 6 aprile in mostra alla galleria Al Blu di Prussia, DRAMA, di Cesare Accetta.

 


Conobbi Cesare Accetta di persona solo nel ‘97 in occasione di uno degli appuntamenti dei Lunedì della fotografia organizzati da Vera Maone e ospitati presso l‘Archivio Parisio.

Quel pomeriggio mostrò un video che consisteva in una panoramica circolare che non era di 360° ma, in maniera surreale, riprendeva più piani verso l‘infinito.

La ricerca fotografica di Cesare Accetta è sempre stata prevalentemente sul “movimento” sperimentando le varie opportunità che esso propone.

Un movimento fotografico che non si ferma esclusivamente sui tempi lunghi di esposizione dell‘otturatore ma basato anche sul movimento della fotocamera in fase di ripresa.

 

E non è tutto.

Cesare Accetta indaga da sempre anche il movimento della luce.
Se fotografia è “scrivere con la luce”, Accetta scrive le sue fotografie osservando le infinite variazioni della luce. In studio o in esterni. Plasmandone l‘immaterialità dei fotoni. Caratteristica essenziale per la conduzione della direzione della fotografia per il teatro e il cinema. Non a caso Accetta è wikipedizzato come Direttore della Fotografia.

E quando entri nella galleria di Al Blu di Prussia per visitare DRAMA, la sua attuale mostra, ti rendi conto che per la sistemazione della luce in sala c‘è la sua esperienza di light designer fatta in oltre quarant‘anni di esperienza.

Esperienza maturata come fotografo di scena per il Teatro Instabile di Napoli, per Falso Movimento di Mario Martone, per Antonio Neiwiller e tanti altri. Fino ad avere incarichi come fotografo di scena per Morte di un matematico napoletano e poi con L‘amore molesto di Martone.

E finalmente esordisce come direttore della fotografia nel cinema per le regie dei film di Antonietta De Lillo, Pappi Corsicato, Nina Di Majo e per lo stesso Martone.

 

Si parte dal nero per plasmare la luce:

 

Il nero è stato ed è il mio momento di ricerca privilegiato e continua ad essere presente nella mia ricerca; il teatro, inteso come scatola nera, è come la camera oscura. Tutto con la luce deve e può succedere. Quello che si vede e quello che si intravede, ma anche «quel che non si vede»,come diceva Antonio Neiwiller”.

 -  Cesare Accetta, dicembre 2023

 

Si entra nella galleria di Al Blu di Prussia e nel primo spazio vi sono fotografie in grande formato a colori. Un corpo femminile mosso, indefinito, tra le fronde di un bosco e anch‘esse mosse, fanno da contrappunto ai ritratti di attrici siti nello spazio successivo. Volti immersi in un nero intenso dai quali scorgere pathos espressivi e l‘occhio si spinge nel dettaglio delle immagini quasi a voler cogliere altre vibrazioni nella bassa luce che li illuminano.

In fondo, un video al rallenty che ricorda la tecnica delle installazioni di Bill Viola. Il ritratto femminile è unico, fisso, ma il lento movimento delle luci e ombre sul suo volto fanno scoprire l‘infinità della gamma emozionale dell‘immagine con le quasi impercettibili variazioni della luce.

 

In questa mostra ritornano tutte le coordinate e le costanti del lavoro di Cesare: il nero, la luce, il corpo, il colore, il tempo, la ricerca della costruzione di un‘idea incarnata sempre nella figura femminile, in un‘impostazione creativa dove la finzione, ed il soffermarsi innanzitutto sul dato emozionale che essa genera, conferma quanto determinante sia per lui il rapporto con la dimensione drammatica del teatro e del cinema.

- Maria Savarese

 

 

Cesare Accetta

Si approccia alla fotografia negli anni ‘70, intrecciando da subito la sperimentazione personale con il teatro di ricerca come fotografo di scena dei principali gruppi e teatri d‘avanguardia napoletani e italiani.

Cesare Accetta ha esposto negli anni il suo lavoro in diverse gallerie e musei italiani. Vanno ricordate alcune importanti mostre, come 03 – 010 nel 2010 al Museo di Capodimonte di Napoli; Dietro gli occhi nel 2012 al PAN| Palazzo delle arti Napoli, in cui ha raccontato vent‘anni di teatro di ricerca napoletano dal 1976, attraverso fotografie per lo più inedite tratte dal suo prezioso archivio di teatro; In luce nel 2016 al Museo Madre di Napoli, opera acquisita nella collezione permanente.

 

 

CESARE ACCETTA – “DRAMA”

A cura di Maria Savarese

ideato e realizzato in collaborazione con Alessandra D‘Elia

Al Blu di Prussia – Fondazione Mannajuolo

Via Gaetano Filangieri, 42

dal 9 febbraio al 6 aprile 2024

Orari: martedì-venerdì 10.30-13/16-20; sabato 10.30-13.00 



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