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21.10.2024 # 6478
Matteo Anatrella e l‘origine della vita

Marco Maraviglia //

Matteo Anatrella e l‘origine della vita

Freedom in mostra al Kestè, il desiderio di rinascita

Lasciare l‘utero ed entrare nel mondo è forse il trauma, seppur naturale, più violento che subiamo.

Forse perché, per un qualche meccanismo di memoria biologica, siamo consapevoli di iniziare il lungo percorso della vita che avrà una sua fine.

Passiamo da uno stato di benessere, di pace indotta dal liquido amniotico, da una casa in cui abbiamo vissuto per nove mesi sentendoci al sicuro, al caos della vita.

Da quel momento in poi riceviamo carezze e coccole per aiutarci ad affrontare il nuovo mondo. E poi, man mano che cresciamo, sviluppiamo linguaggio e sentimenti.

Durante la crescita abbiamo tappe da compiere, boe da raggiungere, traguardi da tagliare. Con problemi annessi da risolvere, sconfitte, oltre che successi, tormenti che si alternano a gioie… insomma: la vita.

E nella vita è nostro dovere e diritto rendercela leggera e piena di belle emozioni per perseguire la felicità.

Visto che non è per sempre.

 

Freedom è il titolo della mostra fotografica di Matteo Anatrella.

Sono immagini che evocano la ricerca di una libertà intima, da conquistare con forza, energia, senza risparmiare la potenza dell‘anima, attraversando la sofferenza, dove l‘elemento acqua è il fil rouge che collega i soggetti ritratti alla metafora della pace nell’utero materno. Per trovare la comfort zone d‘origine. Tornare all‘origine. Per sentirsi mentalmente in quella saccoccia liquida di bel riposo.

 

È l‘Acqua la base della vita da cui proveniamo.

Il suo benessere lo consideriamo bevendo, quando piove sui campi agricoli che daranno i frutti che ci nutrono, quando ci immergiamo in mare e svaniscono, come in una fantastica magia, ansie, stress e cattivi pensieri.

 

«Acqua/Archè... dove non c‘è acqua non c‘è vita» è da questo assunto di Talete di Mileto che prende forma il lavoro di Matteo Anatrella, affascinato dal principio dello stesso filosofo greco secondo cui tutto ha origine dall‘acqua. Perché infatti, senza acqua, nessuna forma di vita è possibile. Almeno per quella che noi terrestri intendiamo con la parola vita.

C‘è del pathos in queste fotografie. Tensioni corporee dei soggetti che, per restare in tema dell‘antica Grecia, richiamano l‘estetica della scultura classica rivista in forma contemporanea e con un telo che avvolge i corpi nudi che potrebbe evocare l‘amnio dal quale si distacca il neonato.

Potrebbero sembrare doppie esposizioni montate poi in postproduzione, ma in realtà sono realizzate in scatti unici con due flash i cui tempi non sono sincronizzati tra loro. Giusto per il tempo di cambio posa dei soggetti. Che risultano sdoppiati in immagini dinamiche di mosso creativo, caratteristica dei lavori di Anatrella, quasi a voler significare la ricerca della libertà tra la nascita e la vita.

 

Sono oltre trenta fotografie esposte, in formato 30x40 cm, selezionate da oltre cento scatti.

In bianconero.

 

 

Matteo Anatrella (Napoli, 1975)

Nel 2009 le immagini realizzate da Matteo Anatrella accompagnano la rappresentazione teatrale “Anima Mundi” di Fulvia Innocenti. Nel 2011 lo studio di progettazione Raro Design gli commissiona una serie di tavole nelle quali, il fotografo, affronta “la simbiosi organica del design col corporeo”, nasce così la raccolta “Interazioni Corporee”. Del 2012 è il progetto “Come back home” ispirato al libro di Baricco “Mr Gwyn”, nel quale affronta la ricerca dell‘Io. Nel 2015 arriva la prima personale al PAN di Napoli, poi a Teatro Aperto Fonderia (VR), con “Soul and Matrix Involucri dell‘Anima” un progetto fotografico con live performance, che ancora una volta ruota attorno al concetto di anima e materia. Nel 2018 “Cactus” (Gechi edizioni) in collaborazione con la poetessa Melania Panico, un intervento per “L‘Arte su tutto” (E. Giampaolo - RP libri); 2020 copertina “Peso Specifico dell‘attimo” (P. Pisano - Oèdipus). Nel 2021 ha esposto il progetto editoriale “INVISIBILE” presso ARTgarage, divenuto nello stesso anno un libro della serie “Argento lunare” di Oèdipus col titolo “Cactus due”.

Negli anni numerose le collaborazioni con aziende e magazine nazionali ed internazionali.




 

 Leaving the Womb and Entering the World: The Trauma of Birth


Leaving the womb and entering the world is perhaps the most violent, albeit natural, trauma we endure.


This might be due to some form of biological memory, making us aware that we are beginning life’s long journey, which will eventually come to an end.


We transition from a state of well-being, a peace induced by the amniotic fluid, from a home we’ve inhabited for nine months, where we felt safe, into the chaos of life.


From that moment on, we receive caresses and care to help us face this new world. As we grow, we develop language and emotions.


During our growth, we reach milestones, achieve goals, and overcome challenges—both failures and successes, torment alternating with joy. In essence, this is life.


And in life, it is our right and duty to make it lighter and filled with beautiful emotions in our pursuit of happiness.


Because it’s not forever.


Freedom: Matteo Anatrella’s Photography Exhibition


Freedom is the title of the photography exhibition by Matteo Anatrella.


These images evoke the search for intimate freedom, to be conquered with strength and energy, not sparing the soul’s power as one crosses through suffering. The element of water serves as the common thread, linking the subjects portrayed to the metaphor of the peace found in the mother’s womb. It aims to rediscover the comfort zone of origin, to return to the beginning, to feel mentally in that liquid pouch of restful peace.


Water is the foundation of life, from which we come. We recognize its benefits when drinking it, when it rains on agricultural fields that will bear the fruits that nourish us, and when we immerse ourselves in the sea, where stress and worries disappear like magic.


Water as the Arche of Life


Water/Archè… where there is no water, there is no life.” This statement by Thales of Miletus forms the basis of Matteo Anatrella’s work, inspired by the Greek philosopher’s principle that everything originates from water. Without water, no form of life is possible—at least, not the kind we humans refer to as life.


There’s pathos in these photographs. The bodily tensions of the subjects, evoking classical sculpture from ancient Greece, are revisited in a contemporary form. A cloth envelops the nude bodies, reminiscent of the amnion from which a newborn detaches.


At first glance, the images might seem like double exposures layered in post-production, but in reality, they are unique shots created using two flash units with unsynchronized timing, allowing just enough time for the subjects to change poses. This results in dynamic, creatively blurred images, a signature of Anatrella’s work, symbolizing the search for freedom between birth and life.


Over thirty black-and-white photographs are on display, sized 30x40 cm, selected from more than a hundred shots.


Matteo Anatrella (Naples, 1975)


In 2009, Matteo Anatrella’s images accompanied the theatrical performance “Anima Mundi” by Fulvia Innocenti. In 2011, the design studio Raro Design commissioned a series of panels, in which the photographer explored the “organic symbiosis of design with the body,” resulting in the collection titled “Interazioni Corporee”. In 2012, the project “Come back home”, inspired by Baricco’s book “Mr Gwyn”, addressed the search for self. His first solo exhibition took place in 2015 at PAN in Naples, and later at Teatro Aperto Fonderia (Verona) with “Soul and Matrix Involucri dell’Anima”, a photographic project with live performance, again revolving around the concept of soul and matter. In 2018, he collaborated with poet Melania Panico on the project “Cactus” (Gechi editions), which later became part of the publication “L’Arte su tutto” (E. Giampaolo - RP libri). In 2020, his photography graced the cover of “Peso Specifico dell’attimo” (P. Pisano - Oèdipus). In 2021, his editorial project “INVISIBILE” was exhibited at ARTgarage, and later published as part of Oèdipus’ “Argento lunare” series with the title “Cactus due”.



 

Freedom

di Matteo Anatrella (Produzione di ANeMA project)

coordinamento del progetto di Annarita Mattei

Kestè (art director Fabrizio Caliendo)

Largo San Giovanni Maggiore Pignatelli, 26/27 - Napoli

Inaugurazione: 22 ottobre ore 19.00

Fino al 10 novembre 2024

21.11.2024 # 6494
Matteo Anatrella e l‘origine della vita

Marco Maraviglia //

Tobias Zielony e l‘architettura di Aldo Loris Rossi

Overshoot, fotografia di architettura sociale in mostra alla galleria Lia Rumma

Ci sono architetture contemporanee misconosciute a Napoli, che passano inosservate o che a volte non sono aperte al pubblico perché magari presenti nei cosiddetti obiettivi sensibili. O perché edifici residenziali e quindi proprietà private condominiali che, se varcate senza motivate ragioni, si è penalmente perseguibili secondo l‘art. 614 del codice penale.

 

Il complesso del Nuovo Policlinico possiamo attraversarlo, visitarne i viali, farci jogging. Idem per il Centro Direzionale. Ma per entrare in questi edifici per fotografarli o visitarli, il discorso cambia. Senza parlare di alcuni parchi condominiali dalle notevoli caratteristiche architettoniche ma il cui ingresso è, ovviamente, riservato ai soli condomini.

 

Poi ci sono alcuni casi di rilevanza artistico-culturale che portano a rendere facilmente accessibile gli spazi di alcuni edifici ai visitatori, viaggiatori, turisti, curiosi e appassionati di architettura come ad esempio la Cité Radieuse di Le Corbusier a Marsiglia. Senza prenotazione, senza guida, senza personale di sorveglianza che ti osserva. Perché comunque sei monitorato dalla reception via telecamere.

 

Se saliamo via San Giacomo dei Capri, al termine non possiamo non accorgerci dell‘imponente edificio chiamato “la nave” che si affaccia su di noi. È di Aldo Loris Rossi. Ma chi ha mai visitato i suoi interni?

 

La bellezza del lavoro del fotografo è quella di riuscire a fotografare questi siti per mostrare ciò che non vediamo, non possiamo vedere o ciò di cui non ci accorgiamo che esiste. O che non ne sappiamo nemmeno l‘esistenza.

Tobias Zielony alla galleria Lia Rumma ci mostra un lavoro sul complesso residenziale Piazza Grande ai Ponti Rossi e di La Casa del Portuale, nella zona di via Marina, dell‘architetto Aldo Loris Rossi scomparso nel 2018 al quale è stata dedicata recentemente una mostra con i suoi disegni originali presso la Facoltà di Architettura a Palazzo Gravina.

 

Tobias Zielony fa quella che definirei fotografia di architettura sociale. Un genere che dovrebbe far riflettere sulla vivibilità nei contesti urbani e sensibilizzare sul patrimonio estetico delle città.

Qui non troverete immagini fatte a banco ottico, in alta definizione, basculate con linee cadenti parallele, punti di fuga “scientifici” e realizzate a luce diurna dove le ombre fanno da contraltare per esaltare le forme architettoniche.

Il lavoro proposto da Zielony non intende mostrare tutto ciò ma una parte più viscerale, crepuscolare, “maledetta” di questi due complessi.

Fotografie scattate principalmente la sera o durante la blue hour, come ad alcuni fotografi piace dire, con punti di vista che ricercano composizioni tra il cielo e le forme del cemento, tra dettagli di rampe e facciate riprese in esterni e campi lunghi con viste d‘insieme.

Atmosfera industriale, cupa, tenebrosa per certi versi ma che evidenziano i segni più intimi di una parte dell‘urbanistica di Napoli.

E c‘è della presenza umana in queste immagini. Alcuni ritratti in esterni o interni, dove i soggetti sono estranei alla presenza del fotografo ma integrati nel contesto urbano come se fossero protagonisti di un film underground. Dove la trama è il silenzio e un certo disagio sociale connesso con un habitat fatto di volumetrie di cemento. Una presenza umana avvertibile anche nelle immagini a campo lungo dove la luce delle finestre a tono caldo contrasta, in un‘aura di malinconia, con l‘atmosfera urbana delle suggestive curve architettoniche di Aldo Loris Rossi.

 

Overshoot è l‘ultima serie fotografica realizzata quest‘anno a Napoli dall‘artista tedesco e commissionata dal Museo Madre per il recente progetto espositivo “Il resto di niente”, a cura di Eva Fabbris con Giovanna Manzotti.

 

 

Bio

(1973, Wuppertal, Germania), studia fotografia alla University of Wales di Newport e all‘Accademia di Belle Arti di Leipzig.

È riconosciuto a livello internazionale per i suoi progetti a lungo termine con adolescenti e giovani adulti ritratti in particolari contesti architettonici e sociali. Zielony opera a livello globale ed esplora l‘intersezione tra affermazioni finzionali e documentarie e indaga il potenziale politico ed estetico, nonché i confini dell‘autentica auto-rappresentazione. Nel 2010 ha realizzato con la Galleria Lia Rumma il progetto “Vele”, dedicato all‘omonimo complesso residenziale concepito negli anni ‘60-‘70 dall‘architetto Franz Di Salvo nel quartiere di Scampia, alla periferia nord di Napoli. Il progetto è stato presentato nel 2012 in due grandi mostre, al MAXXI di Roma e al Philadelphia Museum of Art.

Tra le principali mostre personali ricordiamo inoltre: “Dark Data”, Marta Herford (2022); “The Fall”, Folkwang Museum Essen (2021); “Jenny Jenny”, Berlinische Galerie (2013); “Tobias Zieony”, MMK Zollamt Frankfurt (2011); “Manitoba”, Camera Austria Graz (2011); “Story/No Story”, Kunstverein Hamburg (2010). Nel 2015, con il lavoro “The Citizen” è tra gli artisti invitati a esporre nel Padiglione Tedesco, curato da Florian Ebner, alla 56a Biennale di Venezia. Ha vinto il premio GASAG nel 2006 e il Karl-Ströher-Preis nel 2011; ha partecipato all‘International Studio Program, New York (2006). Tra le pubblicazioni più recenti: “Wolfen” (2023), “The Fall” (2021), “Vele” (2014), “Jenny Jenny” (2013), “Manitoba” (2010), Spector Books; “Maskirovka”, Mousse Magazine (2017); “Story / No Story”, Hatje Cantz (2010). Dal 2022 è professore di fotografia presso la HFBK di Amburgo.

 

 

Overshoot

Di Tobias Zielony

Galleria Lia Rumma

Via Vannella Gaetani 12 - Napoli

Orario galleria: martedì - sabato, 11:00 - 13:00 / 15:30 - 19:00

Info: 081 19812354; info@liarumma.it


Foto: © Tobias Zielony Courtesy Galleria Lia Rumma Milano | Napoli

19.11.2024 # 6491
Matteo Anatrella e l‘origine della vita

Marco Maraviglia //

Erwin Olaf: “I am”. Emozioni latenti senza tempo

Per la prima volta a Napoli in esposizione Al Blu di Prussia

Da venerdì 15 novembre 2024 la stagione espositiva della galleria Al Blu di Prussia – lo spazio multidisciplinare di Giuseppe Mannajuolo e Mario Pellegrino – ha preso il via con la mostra “I Am” di Erwin Olaf, a cura di Maria Savarese.

 

 

Sta per accadere. Cosa? Qualcosa. Osserva. Stai attento. Forse è successo e non me ne sono accorto. Mi è sfuggito il tempo. No, aspetta, sta per accadere. In realtà è questo che osservo che sta accadendo. È il presente. Un attimo del presente. Non farti troppe domande. Il futuro o il passato è adesso. Quello stesso adesso che è già indietro nel tempo. Un tempo palindromo, casuale, forse.

Quel tempo che probabilmente non esiste ma siamo abituati a scandirlo, a conviverci, condizionati dalla stessa nostra vita. Dal giorno e la notte. Perché senza il tempo forse nulla esisterebbe. Nulla sarebbe vissuto.

O forse sì.

Non farti domande, immagina solo le risposte. La storia che leggi è tua. Senza una trama. Senza un copione. Perché l‘espressione del pensiero delle persone che osservi in queste immagini può essere così intimo che forse nemmeno loro lo hanno metabolizzato. A volte sono di spalle ma avverti comunque una loro insofferenza. L‘introspezione ha tempi lunghi. A volte è senza tempo. Infinito o senza fine. Sono momenti sospesi, in cui il passato, il presente e il futuro si intrecciano in modo indistinto.

Tu sei solo un intruso che osserva. Anzi, osservi le intrusioni visive create magistralmente da Erwin Olaf. Vorresti chiedere cosa è successo ma non puoi. Resti solo un osservatore.

 

Le opere di Erwin Olaf, con le loro atmosfere sospese e i loro soggetti enigmatici, invitano lo spettatore a riflettere sul fluire del tempo e sulla complessità dell‘esperienza umana.

Osservare le fotografie di Olaf è un‘esperienza che non si ferma alla sola visione ma tocca le corde emotive del proprio patrimonio esistenziale. La relatività del tempo, l‘inespressività che intriga come più di mille espressioni, scene che sarebbero state invisibili e impossibili nella vita reale perché costruite di proposito sul set dall‘artista.

Perché c‘è del surrealismo a cavallo della metafisica in queste immagini. Il caso che accade.

 

Erwin Olaf fa un percorso lungo prima di approdare agli ultimi suoi lavori esposti Al Blu di Prussia. Parte con il reportage, decide poi di creare in studio, poi di nuovo reportage, ritrattistica con citazioni mapplethorpiane, di Helmut Newton o di LaChapelle e poi sfocia nel set, allestito in maniera cinematografica, avvalendosi principalmente di attori invece che di modelli. Si perfeziona e ogni sua immagine diventa maniacalmente perfetta. Priva di rumore visivo, quasi asettica ma è quell‘estetica di estrema pulizia formale che fa concentrare l‘attenzione sulla non-azione, sull‘espressione che cela l‘emozione estremamente intima lasciando l‘immaginazione alle varie sfumature delle interpretazioni.

Citazioni del sogno americano, un attivismo visivo che fa comprendere, attraverso anche un simbolismo intravisto, il contrasto del sogno stesso con l‘infelicità e la decadenza di una realtà più concreta. Come in Tke Kite (2018) della serie Palm Springs, in cui madre e figlia di colore durante un picnic ai margini del deserto osservano pale eoliche dove c‘è una bandiera americana strappata tra i rami di un albero. Un concept ricorrente nel lavoro di Olaf, sviluppato con estrema raffinatezza e senza sfociare nella tradizionale Pop Art warholiana ma realizzando immagini anti-pubblicitarie a sfondo sociale.

 

It‘s not that I want to photograph unhappiness, but I want to photograph emotions I actually feel and life can be unconfortable. I want you to come into my exhibition with a certain mood and come out with a different one – possibly enriched.

(Non è che voglio fotografare l‘infelicità, ma voglio fotografare le emozioni che provo davvero e la vita può essere scomoda. Voglio che tu entri nella mia mostra con un certo stato d‘animo e ne esca con uno diverso, possibilmente arricchito.)

- Erwin Olaf

 

I am. Io sono la regina Mariantonietta che poso in studio con la mia testa decapitata immersa nell‘etereo bianco e ti guardo quasi con sfida. Io sono la donna che lavora anche se ho i miei problemi per il “ciclo” o probabilmente violentata dal mio capo. Il tutto rivelandosi in un‘atmosfera di presenzassenza.

Luci cupe che richiamano l‘arte fiamminga. Luce in high-key, ossimoro dell‘arte fiamminga, che azzera il tempo contrastando comunque con uno stile esistenzialista.

Biondo, pelle chiara, se albino meglio. Il bianco candido che qui non è candore ma evoca inquietudine, ansia, irrequietezza congelata, che non appare ma se ne avverte la tensione.

I am. Vietato fermarsi all‘apparenza della perfezione della cifra stilistica dell‘artista. Oltre c‘è un mondo invisibile e da esplorare.

Una mostra che non lascia indifferenti.

 

Erwin Olaf sia stato e sarà per sempre il cantore della libertà, del desiderio, dell‘uguaglianza sociale, sessuale, individuale, dell‘inclusione, dei corpi altri, della disinibizione, della critica sottile e colta all‘ipocrisia sociale, e soprattutto quanto il senso della sua opera e della sua intera vita possa essere sintetizzato in un‘unica affermazione: “I exist in freedom, therefore I am.”

- Maria Savarese

 

Nella sala cinema della galleria sono proiettati in loop dei brevi filmati dello stesso Olaf che confermano le caratteristiche della sua ricerca degli ultimi anni che ha vissuto.

 

Bio (dal comunicato stampa)

Nato a Hilversum nel 1959 e scomparso il 20 settembre 2023, trasferitosi presto ad Amsterdam, Olaf si laureò alla scuola di giornalismo di Utrecht con l‘intenzione di diventare un fotografo documentarista, ottenendo nel 1984 il suo primo lavoro per la rivista “Vinyl”, un reportage sulla vita notturna di Amsterdam e sulla comunità gay.

In questi anni, determinante per lui fu l‘incontro con Hans van Manen, noto coreografo e fotografo olandese, allievo di Robert Mapplethorpe, che influenzò profondamente la sua ricerca artistica. Dai primi scatti, fino alla serie Chessmen pubblicata da “Focus Amsterdam” nel 1988, con cui ricevette il premio Young European Photographer of the Year, i suoi riferimenti furono oltre Mapplethorpe, anche Weegee, Witkin, Helmuth Newton, Candida Hofer, Andreas Gursky ed altri esponenti della Scuola di Dusseldorf, insieme a quella fotografia di moda che da Platt Lynes, arrivava fino a Horst.

Fra gli anni ottanta e novanta, Olaf iniziò ad orientare l‘“attivismo visivo” documentaristico e provocatorio degli esordi – così come lo ha definito Shirley den Hartog, sua storica collaboratrice ed oggi alla guida dello Studio – verso una visione della fotografia più riflessiva, pensata, tecnicamente costruita, realizzata sempre in interno, evidente già in Royal Blood. Con questo lavoro, non solo volle dimostrare quanto ormai la sua indagine fotografica fosse indirizzata altrove, ma soprattutto come le recenti scoperte di nuove modalità tecniche, ad esempio photoshop, fossero artefici di inedite possibilità espressive.

 

 

 

 

ERWIN OLAF – “I Am

A cura di Maria Savarese in collaborazione con lo Studio Erwin Olaf e la galleria Paci Contemporary.

Galleria Al Blu di Prussia

via Gaetano Filangieri, 42 – Napoli

Dal 15 novembre 2024 al 28 febbraio 2025

Orari: martedì-venerdì 10.30-13/16-20; sabato 10.30-13 

Brochure: artstudiopaparo


Foto di copertina: Erwin Olaf, The Kite -2018- from the series "Palm Springs".

© Studio Erwin Olaf, Courtesy of Paci contemporary

Foto interna: Erwin Olaf, The Boardroom -2005- from the series "Rain"

© Studio Erwin Olaf, Courtesy of Paci contemporary



12.11.2024 # 6487
Matteo Anatrella e l‘origine della vita

Marco Maraviglia //

Trenta paia di mani di Franco Esse

M&M, mani e materiali in mostra alla Fornace Falcone fino al 31 novembre

Scrivono, disegnano, digitano, carezzano, plasmano, grattano, tastano, accompagnano con il loro movimento conversazioni e discussioni; quando non si conosce una lingua straniera la loro mimica aiuta a comunicare perché alcuni gesti sono internazionali.

Sono le mani! Patrimonio preziosissimo del corpo umano che, senza di esse, molti lavori non potrebbero essere fatti.

 

Il fotografo Franco Esse, nel corso degli anni della sua attività professionale, implementa una sua ricerca sulle mani che incontra in occasioni di lavoro e nella vita privata. Ci mostra una carrellata di “ritratti” dove non vedi volti ed espressioni ma primi piani di mani che raccontano o lasciano immaginare il lavoro e la vita delle persone alle quali appartengono.

 

È un elogio visivo alle mani, al quale Esse si accorse di starci lavorando inconsapevolmente allorquando lo scrittore e critico d‘arte David Miliozzi, gli fece notare che in ogni suo lavoro erano presenti degli scatti fotografici che ritraevano mani in maniera ravvicinata.

Dettagli ripresi in contesti diversi che, estrapolati dai singoli lavori realizzati per le aziende, hanno fatto sì da creare un filone parallelo, un progetto autonomo.

Nell‘arte le mani sono (state) spesso protagoniste e oggetto di studio dei più grandi artisti come gli schizzi degli studi di Leonardo; le mani che disegnano di M. C. Escher; e poi quelle di La creazione di Adamo di Michelangelo, il cui dettaglio della Cappella Sistina è divenuto oggetto di meme e della comunicazione contemporanea. In ogni opera che si rispetti, che sia un dipinto o una scultura, l‘importanza che viene data alle mani dall‘artista, è un valore aggiunto. Indispensabile, per certi versi.

Analogamente, nella fotografia di moda si evince la qualità delle immagini se l‘impostazione delle mani delle modelle è ben curata.

È forse comprensibile come invece le immagini sintetiche non possano definirsi opere in senso lato per la difficoltà dei software di non riuscire ancora a riprodurre in maniera perfetta le mani.

Perché le mani sono un po‘ l‘anima della persona a cui appartengono. Le mani raccontano parte della storia di una persona o il suo carattere che non può essere creato da un algoritmo in una manciata di secondi. Non a caso durante alcuni colloqui di lavoro, l‘esaminatore osserva anche le posizioni che assumono le mani del candidato e come si muovono quando il soggetto parla.

 

Le immagini di Franco Esse, sono state realizzate dal 1998 al 2024. Allestite seguendo da sinistra verso destra la loro sequenza temporale e dove l‘ultima foto ritrae le mani della madre recentemente scomparsa.

Fotografie di mani che lavorano, che riposano, di momenti intimi e privati, tutte in bianconero e che evidenziano l‘azione del movimento, la texture della pelle, il rilievo delle vene, fili di rughe, callosità.

Una panoramica dove viene annullato l‘arco temporale delle immagini stesse perché l‘osservazione si concentra sulle mani, la loro articolazione, la loro forma.

 

Sopra le trenta fotografie 30x40 che riempiono l‘intera parete del suggestivo showroom della storica Fornace Falcone, sono applicate alcune parole tratte dalla poesia di David Miliozzi, Ode alle mani, la cui lettura sembra un immaginario myriorama letterario:

 

Oh mani, identità nostra, specchio di un‘anima viva, fragile, libera, inquieta, intrecciata, incallita, sudata.
Oh mani, ritratto prensile della volontà, avanzate nell‘ombra in linee morbide, spezzando chiaroscuri.
Voi toccate, stringete, salutate, colpite, pregate, lavorate.
Oh mani, che attraversate l‘aria e la luce, scorci sublimi dell‘umano agire, testimoni affaticate della nostra esistenza, del tempo che fugge. Danzate nello spazio stringendolo tra le dita, fate luce nel buio, rinnovando lo sguardo.
Oh mani, delicate, ruvide, vellutate, rattrappite. Sul vostro corpo i segni e le ferite sono conoscenza che ha bisogno di cure. Decine di miliardi di mani si muovono con grazia sulla terra, fino a oriente, dove il sole sorge sul mare. Si sfiorano, si incontrano, raccontano storie vere e assurde, così diverse eppure così simili, spiccano il volo come uccellini affamati d‘amore, verso volti tristi e occhi sorridenti, per un mondo di carezze e di dolore.

-       David Miliozzi

 

Mani. Non sempre osserviamo le mani delle persone che ci circondano. Eppure, questo lavoro di Franco Esse dovrebbe stimolarci a osservarle. Per conoscere magari meglio le persone intorno a noi.

 

 

Bio

Franco Esse nasce a Napoli nel ‘55, in una famiglia di artisti e fotografi. Apprende fin da piccolo la tecnica fotografica nello studio del padre. Dopo gli anni del Liceo Artistico e della facoltà di Architettura, in cui approfondisce il suo interesse per la “figura” e la forma, inizierà a Berlino il lavoro su grande formato e “in studio”. Lavora all‘estero (Argentina, Francia, Germania, Iran, Turchia) e, in particolar modo, in Africa (Marocco, Libia, Egitto, Togo, Benin, Mauritania) dove prosegue la sua ricerca sulla luce e sulla figura umana. Numerose mostre e personali e pubblica, tra gli altri, su Kultur, Architettura, NDR, Interni, DOVE e per l‘editoria internazionale. Ha lavorato a 15 cataloghi per artisti nazionali e stranieri; per Electa, DeRosa, Soprintendenza ai monumenti di Cosenza, Cogeco, CGIL, Ass. per l‘Archeologia Industriale, Regione Molise, Mededil-Italstat, BMW, AtiTech.

Realizza immagini fotografiche per aziende come Marotta Aereonautica, Caremar Navigazione, Broccoli Calzature, Peluso Calzature, Mustilli Vini, Terre Del Principato Vini , Gallotti & Radice  Arredo Vetro, Joe Monaco Orologi, Costa Bruzia Surgelati, “Les Tortues” oggettistica in ceramica.

They write, draw, type, caress, shape, scratch, touch, accompanying conversations and discussions with their movement; when a foreign language is unfamiliar, their mimicry helps to communicate because some gestures are universal.


These are hands! A precious asset of the human body—without them, many jobs could not be done.


Photographer Franco Esse, over the years of his professional career, has developed a personal exploration of hands he encounters in both his work and personal life. He shows us a collection of “portraits” in which there are no faces or expressions—only close-ups of hands that tell, or hint at, the work and lives of the people to whom they belong.


It’s a visual tribute to hands, something Esse realized he’d been working on unconsciously when writer and art critic David Miliozzi pointed out to him that every one of his works included close-up shots of hands.


Captured in diverse contexts, these details, extracted from individual projects created for companies, eventually formed a parallel stream—a standalone project.


In art, hands have often been central subjects and studies for great artists—like Leonardo’s sketches, M.C. Escher’s Drawing Hands, and Michelangelo’s The Creation of Adam, where the detail in the Sistine Chapel has become a staple of contemporary memes and communication. In any respected artwork, whether painting or sculpture, the artist’s attention to hands adds an essential layer of value. Indispensable, in some ways.


Similarly, in fashion photography, the quality of an image is evident when the models’ hands are positioned with care.


It may also be understandable that synthetic images cannot fully be called “works” in the same sense due to software’s ongoing challenges in perfectly replicating hands.


Because hands, in a way, embody the soul of the person to whom they belong. Hands reveal part of a person’s story or character—something that can’t be created by an algorithm in a matter of seconds. Not by chance, during some job interviews, the examiner also observes the position and movements of the candidate’s hands while speaking.


Franco Esse’s images were created from 1998 to 2024. Displayed from left to right in chronological order, the final photograph captures the hands of his recently deceased mother.


Photographs of working hands, resting hands, intimate and private moments—all in black and white—highlighting the movement, skin texture, raised veins, lines, and calluses.


A panorama that neutralizes the time span of the images themselves, directing the viewer’s focus on the hands, their articulation, and their shape.


Above the thirty 30x40 photographs that fill the entire wall of the historic Fornace Falcone’s evocative showroom, a few words from David Miliozzi’s poem Ode to Hands are displayed, reading like an imagined literary myriorama:


Oh hands, our identity, mirror of a living, fragile, free, restless, intertwined, calloused, sweaty soul.

Oh hands, gripping portrait of will, advancing in the shadow in soft lines, breaking through chiaroscuro.

You touch, grasp, greet, strike, pray, work.

Oh hands, traversing air and light, sublime glimpses of human action, weary witnesses of our existence, of fleeting time. Dance in space, grasping it between your fingers, bring light to darkness, renewing our gaze.

Oh hands, delicate, rough, velvety, gnarled. On your body, the marks and scars are knowledge that needs care. Tens of billions of hands move gracefully on the earth, to the east, where the sun rises over the sea. They brush against, meet, tell true and absurd stories, so different and yet so similar, taking flight like birds hungry for love, toward sad faces and smiling eyes, for a world of caresses and pain.


David Miliozzi


Hands. We don’t always notice the hands of those around us. Yet, this work by Franco Esse should inspire us to observe them—to perhaps get to know the people around us better.


Bio


Franco Esse was born in Naples in ’55, into a family of artists and photographers. He learned photographic techniques at a young age in his father’s studio. After years in Art High School and studying Architecture, which deepened his interest in “figure” and form, he began working with large format and studio photography in Berlin. He has worked abroad (Argentina, France, Germany, Iran, Turkey) and, especially, in Africa (Morocco, Libya, Egypt, Togo, Benin, Mauritania), where he continued exploring light and the human figure. He has held numerous solo and group exhibitions and has been published in Kultur, Architettura, NDR, Interni, DOVE, and other international outlets. He has produced 15 catalogs for national and foreign artists, collaborating with Electa, DeRosa, the Monuments Superintendent of Cosenza, Cogeco, CGIL, the Industrial Archaeology Association, the Molise Region, Mededil-Italstat, BMW, and AtiTech.


He creates photographic images for companies like Marotta Aeronautics, Caremar Navigation, Broccoli Shoes, Peluso Shoes, Mustilli Wines, Terre Del Principato Wines, Gallotti & Radice Glass Furniture, Joe Monaco Watches, Costa Bruzia Frozen Foods, and “Les Tortues” ceramic items.

 

 

M&M mani e materiali

di Franco Esse

a cura di Lucio Del Gobbo

showroom Fornace Falcone

presso Cilento Outlet Village, SS 18 Tirrena Inferiore, 84025 Corno D‘oro, Eboli (SA)

dal 2 al 31 novembre 2024

Orario negozio

Ingresso libero

29.10.2024 # 6483
Matteo Anatrella e l‘origine della vita

Federica Cerami //

Birds are not allowed to cross the border

Un delicato racconto fotografico di Paola Favoino

Il 25 Ottobre, negli spazi di Magazzini Fotografici, il suggestivo presidio culturale di Napoli dedicato alla fotografia, si è inaugurata la mostra di Paola Favoino sul tema dei confini, con un doppio racconto: “Birds are not allowed to cross the border” e “A je burrnesh”, a cura di Aminta Pierri.

A distanza di qualche giorno, mi rendo conto di essere ancora rimasta, emotivamente, dentro il primo dei due racconti ed è per questo motivo che ho scelto di parlarne; credo che le parole e le fotografie quando si incontrano, lungo le strade della vita, hanno il magico potere di creare dei tragitti luminosi che fanno bene a tutti noi che abbracciamo le narrazioni per provare ad accogliere tutto il mondo che, nelle grigie quotidianità vissute, non riusciamo nemmeno a sfiorare.

Questa è la storia di Julia che dall’Ucraina è venuta nella primavera del 2022 in Italia, scappando dalla guerra, per trovare un rifugio con suo figlio, ma questa è una storia che, incredibilmente, non parla di sofferenze, di famiglie spezzate, di paura e di disperazione ma, volgendo lo sguardo al cielo, parla di libertà, di dignità, di amore per la vita, di poesia, di leggerezza Calviniana e tanto altro ancora e lo fa mostrando i ritratti di nove uccelli tratti in salvo dalla protagonista e curati con tanto amore.

Paola abbraccia questa storia a tutto tondo; una storia che rientra pienamente nelle sue corde, avendo lei compiuto gli studi in sociologia culminati poi con un master su immigrazione e asilo politico.

Con Julia si incontra a Montegiordano, il suo paese di origine, nell’estate del 2022 proprio grazie a questi uccelli con i quali Julia ha percorso ben 2800 km, dall’Ucraina all’Italia, utilizzando solo i mezzi di trasporto che le consentivano di viaggiare con loro, chiusi dentro alcune scatole di cartone.

Il tragitto di Paola e Julia verso il veterinario del paese, che presterà le prime cure a uno dei suoi uccellini, segna l’inizio di questa amicizia sincera che continuerà ad essere coltivata e nutrita anche quando Julia, pochi mesi dopo questo incontro, deciderà di ritornare in Ucraina con suo figlio, per ricongiungersi con il marito e con il suo amato e martoriato paese.

La bellezza seminata da Julia, come una sorta di inno alla vita, resta dentro i pensieri di Paola che decide di dedicarle questo racconto fotografico e sarà proprio la distanza e la difficoltà di comunicazione a suggerire a Paola una particolare modalità di costruzione del racconto che il fotografo e teorico dell’immagine, Joan Funtcuberta potrebbe definire “postfotografica”.

Julia, infatti, dopo vari tentativi di Paola di comporre le tessere del mosaico della poetica storia di questa donna, decide di darle il permesso di accedere al suo archivio fotografico presente su Facebook con il quale Paola interagisce con tanta creatività e con analoga poesia e ricerca della bellezza.

L’idea che Julia abbia sentito il bisogno di viaggiare con questi uccellini come parte della sua famiglia, di salvarli e di curarli è un insegnamento potente che offre a noi spettatori una visione altra della vita: si ribaltano le priorità e la cura della bellezza va oltre la paura e l’orrore della guerra.

Julia, come mi ha raccontato Paola “insegna ad amare” e allora serve un modo giusto per renderle omaggio, una cifra stilistica che sia leggera e forte al tempo stesso.

Paola entra nell’archivio di Julia, seleziona alcune fotografie e rende analogico il file digitale che poi stampa in camera oscura.

Il processo creativo di Paola arriva anche alla carta fotosensibile, da lei creata con carta d’acquerello emulsionata con gelatina ai sali d’argento, mentre le immagini in diapositiva sono state create trasformando un file digitale in una immagine trasparente positiva che è stata poi proiettata come se fosse una semplice diapositiva.

Arriva, alla fine, il momento dell’allestimento che sembra spezzare le barriere di tempo e spazio e con delicatezza di espande su tutte le pareti della stanza che ospita la mostra.


English Version


Birds are not allowed to cross the border: A Delicate Photographic Story by Paola Favoino


Photography exhibition in Naples: Paola Favoino tells the story of Julia and her birds


On October 25, at Magazzini Fotografici in Naples, a cultural space dedicated to photography, Paola Favoino‘s exhibition on the theme of borders was inaugurated. The exhibition presents two photographic narratives: “Birds are not allowed to cross the border” and “A je burrnesh”, curated by Aminta Pierri.

A few days later, I realize that I am still emotionally immersed in the first of these stories, and it’s for this reason that I chose to write about it; I believe that words and photographs, when they meet along life’s paths, have the magical power to create luminous journeys. This magic benefits those of us who embrace narratives, attempting to welcome the world that we can barely touch amid our everyday lives.

This is the story of Julia, who came from Ukraine to Italy in the spring of 2022, fleeing the war, to find refuge with her son. But this is a story that, incredibly, does not speak of suffering, broken families, fear, or despair. Instead, looking to the sky, it speaks of freedom, dignity, love for life, poetry, a Calvino-like lightness, and much more, portraying nine birds saved and lovingly cared for by the protagonist.

Paola embraces this story wholeheartedly, a narrative that resonates deeply with her, having studied sociology and later completed a master’s in immigration and political asylum.

Paola meets Julia in Montegiordano, her hometown, in the summer of 2022, thanks to these birds, with whom Julia traveled 2800 km from Ukraine to Italy, using only transportation that allowed her to travel with them, secured in cardboard boxes.

The journey of Paola and Julia to the town’s vet, who would provide initial care for one of her birds, marks the beginning of this genuine friendship that would continue to grow even when Julia, a few months after this meeting, decided to return to Ukraine with her son to reunite with her husband and her beloved war-torn country.

The beauty Julia planted, as an ode to life, lingers in Paola’s thoughts, prompting her to dedicate this photographic narrative. The physical distance and communication difficulties would lead Paola to adopt a storytelling approach that the photographer and image theorist, Joan Funtcuberta, might describe as “post-photographic.”

After several attempts to assemble the mosaic of this woman’s poetic story, Julia grants Paola access to her photo archive on Facebook, with which Paola interacts creatively, adding a similar sense of poetry and beauty.

Julia’s feeling of needing to travel with these birds as part of her family, to save and care for them, offers viewers a powerful lesson and an alternative vision of life: priorities shift, and beauty goes beyond the fear and horror of war.

As Paola told me, “Julia teaches us how to love,” and so a fitting tribute is required, a style that is light yet strong at the same time.

Paola enters Julia’s archive, selects a few photographs, and renders the digital files analog, then prints them in the darkroom.

Paola’s creative process extends to the photosensitive paper, created with watercolor paper emulsified with silver gelatin, while the slide images were created by transforming a digital file into a positive transparent image, later projected as a simple slide.

Finally, the time comes for the exhibition setup, which seems to dissolve the barriers of time and space, delicately expanding across all the walls of the room hosting the exhibition.

15.10.2024 # 6470
Matteo Anatrella e l‘origine della vita

Marco Maraviglia //

Il surrealismo all‘ombra di Carlo Ferrara

Nessuno è Peter Pan, un libro con fotografie realizzate a Km zero

Osserviamo la nostra lunga ombra sulla sabbia di una spiaggia al tramonto. Magari compiacendoci perché sembriamo più alti e slanciati. Con quell‘eleganza minimal che non mostra lo sguardo degli occhi.

Quando la sera camminiamo sul marciapiede, ci sentiamo seguiti, osservati e raggiunti dalla nostra siluette, con la successione ritmica delle luci dei lampioni. Che sdoppiano o triplicano la nostra ombra.

E a volte l‘osserviamo narcisisticamente divenendo estemporanei feticisti della proiezione del nostro “riflesso scuro”.

 

Nella maggior parte dei casi non badiamo più di tanto alle ombre ma soffermiamo lo sguardo sulle cose, sulla loro fisicità. Come se l‘ombra fosse qualcosa di troppo ma che invece, senza di essa, non avremmo la tridimensionalità della realtà. Nelle giornate con cielo grigio perdiamo un po‘ i riferimenti orari.

Ogni lampione, ogni palazzo, ogni scultura in mezzo a una piazza è come se fosse lo gnomone di una meridiana. Tutto resta fermo, ma l‘ombra si sposta, si accorcia e si allunga, si inarca se passa su una superficie tonda. Ed è sempre legata a una estremità di riferimento. Fissa. Immobile, se non è un essere vivente.

 

Nessuno è Peter Pan perché nessuno ha l‘ombra che va per i fatti suoi. Nessuno ha bisogno di cercarla per sentirsi presente, vivo. Nessuno attribuisce la coscienza alla propria ombra.

 

Le ombre sono una chiave per mettere in comunicazione due mondi. Perchè, nel mio credere, tutti abbiamo personalità multiple, a seconda delle situazioni, e le ombre mi consentono di esplorarle. La bivalenza e l‘equilibrio.

 

Carlo Ferrara ci gioca con le ombre.

Con un modo di fotografare dove l‘ombra diventa protagonista. Ironizzata, sbeffeggiata ma al centro dell‘attenzione. Un gioco surrealista in cui “l‘omino col cappello”, sempre vestito allo stesso modo, dà la sensazione della fisicità delle ombre. Palpabili, concrete, vive, quasi con un loro volume invisibile.

Nessuno è Peter Pan è un lavoro “ecologico” perché realizzato a Km zero: tutte le immagini sono state scattate nei dintorni della sua abitazione.

 

Attraverso l‘osservazione del mondo reale, sviluppo immagini surreali, che diventano metafora di opinioni e ragionamenti. Il personaggio che interpreto in ogni fotografia è la rappresentazione del genere umano. L‘autoritratto non è estetica, ma è il confronto delle emozioni personali con le emozioni delle masse. Uno strumento di esplorazione interiore ed uno specchio per l‘osservatore. Tutta la produzione è unita dall‘ossessiva ricerca di stabilità personale, rispetto a temi che non possono avere una risposta inequivocabile.

 

Ma la ricerca surrealista di Carlo Ferrara non si ferma alle ombre.

Il suo lavoro viene realizzato in scenari che spaziano tra architetture, paesaggi urbani, luoghi abbandonati, campagne. Con componenti Dada, ironiche, grottesche, paradossali, con una gradevole punta di nonsense che sfociano in un Situazionismo individuale dove la sua figura è sempre presente con autoritratti e a volte coinvolgendo anche la famiglia. Salta, si incurva, si sdoppia, si inclina a prova di gravità, dialoga e scherza con ciò che c‘è nella scena. Sì, usa il fotomontaggio digitale e le multiesposizioni, con immagini non raffazzonate ma che conservano sempre una pulizia grafica con equilibrio estetico compositivo e con i toni bianconeri che raccolgono tutta la gamma dei grigi.

 

È, quella di Carlo Ferrara, una fotografia per certi versi ludica, simpaticamente narcisista; ma è solo un pretesto per far sorridere della vita, attraverso punti di vista che servono innanzitutto all‘autore per la sua ricerca di stabilità emotiva. E per l‘osservatore che, sorridendo, può trovare analogie emozionali con il proprio essere.

 


Biografia.

Carlo Ferrara nasce a Novi Ligure nel 1975. Lavora attualmente presso una multinazionale alimentare sita in Piemonte. Inizia l‘interesse per la fotografia nel 2006 e ne approfondisce la conoscenza attraverso la frequentazione di seminari, corsi e sperimentazioni. La passione lo spinge alla riscoperta della fotografia analogica e della camera oscura pur non tralasciando il digitale, col quale produce la maggior parte delle sue opere.

 

 

NESSUNO È PETER PAN

Dialogo con le ombre

Prefazioni di Giorgio Rossi e Giusy Tigano

Formato: 21x21 cm

60 pagg.

51 fotografie (37 fotografie, 18 dittici in doppia pagina e copertina)

Self publishing tramite GT Photoart Milano

Tiratura: 150 copie

Contatto: nepp.ferrara@libero.it


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