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12.09.2024 # 6448
La Luce Scritta a Montecchio

Marco Maraviglia //

La Luce Scritta a Montecchio

Rassegna fotografica con 12 autori nell‘affascinante castello estense

Questa non è la recensione di una collettiva fotografica perché sarebbe troppo lungo parlare dei lavori di dodici autori.

Qui c‘è solo qualche appunto che riguarda la nascita, lo sviluppo e l‘organizzazione di una rassegna fotografica giunta ormai alla sua III edizione ideata e seguita da Enzo Crispino. Un fotografo che riserva una certa attenzione al panorama della fotografia cercando di promuovere realtà che vanno oltre il proprio orticello.


Enzo Crispino crea la rassegna La luce scritta con la quale cerca di far emergere esordienti o dare più luce a fotografi già affermati che hanno percorsi autoriali che meritano visibilità.

Per circa otto mesi e per un paio d‘ore al giorno, Crispino scorre i social, principalmente Instagram, individua immagini che lo colpiscono in base alla sua cultura visuale, scopre i fotografi che ritiene più interessanti e coerenti secondo un loro filo progettuale e inizia a contattarli. 


I social ormai sono utilizzati anche da aziende che devono assumere. Valutano la web reputation, deducono lati caratteriali, quanti follower hai e, se il caso, contattano il potenziale candidato.


Ho deciso di creare questa rassegna di arte fotografica per offrire l‘opportunità all‘autore di vedere le proprie fotografie in mostra, stampate in Fine Art presso un laboratorio con certificazione internazionale Canson e con la certificazione dei requisiti di conservazione museale. Per ottenere questo mi sono rivolto alla fotografa professionista Antonella Pizzamiglio, stampatore ufficiale internazionale Canson, titolare del laboratorio di stampa Fine Art, ArteStudio di Casalmaggiore, in provincia di Cremona. Con lei, insieme alla sua socia, Barbara Sereni, che ha ideato la denominazione della rassegna, abbiamo costituito e fondato “Montecchio Fotografia-La luce scritta”. 

- Enzo Crispino


Enzo Crispino, in veste di talent scout della fotografia, non bada a quanti follower ha un autore, perché potrebbero essere fasulli, acquistati a pacchetto, ma punta sul suo intuito basato sulla personale esperienza visiva.

I fotografi selezionati per la rassegna, pur essendoci alcuni professionisti, si ritrovano in questa occasione l‘opportunità di poter esporre per la prima volta un progetto fotografico basato su otto immagini tratte da quindici/venti fotografie. L‘editing per comporre la sintesi del lavoro da esporre è a cura dello stesso Crispino. Sul quale ci si può trovare d‘accordo o discuterne ma i problemi che possono sorgere sono altri. Come ad esempio l‘autore che vuole ritirarsi perché non più convinto di partecipare e i tempi per la sostituzione con un altro fotografo portano un po‘ di stress, dati i tempi ristretti per mettere il tutto in piedi. Eppure il regolamento con tutte le condizioni è preventivamente mostrato prima di essere sottoscritto.


Una delle cose sulle quali porre l‘accento è che un Comune di poco più di diecimila abitanti, quale è Montecchio Emilia (RE), è molto sensibile alle attività culturali e sostiene economicamente da tre anni la rassegna. Oltre che a mettere a disposizione il suggestivo castello estense. E il partenariato con la CANSON Infinity, con la collaborazione di Antonella Pizzamiglio, stampatore ufficiale internazionale dell‘azienda, è un altro dei quid della rassegna.


Per una buona sinergia tra pubblico e privato, bisogna dire che Enzo Crispino non è solo un fotografo pluripremiato e ammesso come Socio di Merito all‘Accademia Internazionale d‘Arte Moderna di Roma, ma possiede costanza e velocità d‘azione, lucidità organizzativa fatta di accordi sottoscritti con le parti per non lasciare nulla al caso. E caratterialmente possiede un‘estrema pazienza e gentilezza senza le quali questo articolo non l‘avrei potuto scrivere.

Lunga vita a La luce scritta!



LE MOSTRE:

La collettiva consta di ottantotto fotografie (otto foto per ogni autore). Tutte stampate su carta Canson Baryta Prestige 340gsm in formato 40x40 cm con la stampa sul lato lungo uguale per tutti, di 34 cm, con passpartout e cornice nera. «Una scelta dettata in quanto nel formato quadrato, si ha più possibilità di inserire i diversi i formati delle fotografie degli autori», racconta Enzo Crispino.


La personale di Montali consta di 29 fotografie così composte: per il progetto dal titolo “Il senso del tempo” sono cinque stampe nella misura 80x80 cm e due in formato 90x90 cm. Poi ci sono sei stampe fatte con l‘antica tecnica della gomma bicromata, in formato 40 cm di base e 60 cm di altezza. Per la mostra “Appunti italiani”, sempre dello stesso Montali, sono esposte sedici stampe in formato 50x60 cm.




AUTORI E TITOLI DEI PROGETTI:


Bernabini Andrea: Gli occhi delle bambine e dei bambini

Di Bella Vecchi Camilla: Autoritratti 

Di Biagio Andrea: Salvare il Mekong

Gentile Gabriele: Denari

Gili Stefano: Family love

Kupčáková Jana: Street Praha

Mazzola Olivia: Ikebana

Mazurel Thierry: No border

Müller Marcella: Stoccarda in cifre

Rebaioli Nicola: Tracce

Vitali Lorenzo: La memoria del corpo femminile


Con personale di Gigi Montali: Il senso del tempo / Appunti italiani



INCONTRI:


Domenica 15 settembre: 

Conferenza di presentazione della mostra di Gigi Montali. 

Incontro con il fotografo Gigi Montali e il Critico d‘arte Prof. Sandro Parmiggiani.


Domenica 22 settembre: 

Conferenza dal titolo “L‘importanza della stampa Fine Art”. 

Incontro con Paolo Forlani (Responsabile Linea CANSON Infinity) e Antonella Pizzamiglio (Stampatore Ufficiale internazionale CANSON Infinity).


Domenica 29 settembre:

Incontro con Paolo Chiesa (Storico della Fotografia e dei processi originari).

Dimostrazione della Fotografia minutera e a seguire, conferenza dal titolo “La Fotografia come forma d‘arte sta nelle nostre mani e non sulla punta delle dita”


Montecchio Fotografia - La luce scritta 2024 - Terza Edizione

a cura di Enzo Crispino, Antonella Pizzamiglio e Barbara Sereni

testi critici di Sandro Parmiggiani

dal 6 al 29 settembre

Castello Medievale del Comune di Montecchio Emilia, (Reggio Emilia)

Orari di apertura:

Lunedì e giovedì: 9.00-13.00 / 15.00-18.00

Martedì e venerdì: 15.00 -18.00

Mercoledì: 9.00-13.00

Sabato: 9.00-12.00

Domenica: 15.00-19.00

Ingresso Libero


Partner ufficiale della rassegna: CANSON


Info e Prenotazioni: tel. 0522 861864


Foto di copertina © Enzo Crispino


11.10.2024 # 6460
La Luce Scritta a Montecchio

Marco Maraviglia //

Le Sirene napoletane di Luciano Ferrara

Sirene tra i fari è la mostra sui femminielli al Palazzo Carafa di Napoli

Fino al 25 ottobre è visitabile la mostra di Luciano Ferrara al Palazzo Diomede Carafa.

Non troverete foto in maxi formato appese ai muri col chiodo ma un allestimento ragionato che rispetta le caratteristiche delle fotografie stesse. E rispettando l‘umanità dei soggetti ritratti, senza spettacolarizzarli.

Troverete un allestimento che a colpo d‘occhio potrebbe sembrare spartano ma che invece ha i suoi perché.

Quelle della Collezione Rita e Riccardo Marone poggiate su teche aperte come se i collezionisti stessi volessero mostrarle ai propri ospiti di casa e che raccontano tutta la bellezza e la complessità di Stefania, Patrizia, Valeria, Carlotta, Valentina, Luna, Tonino e molti altri, fotografati per le strade di Napoli, dalla Sanità ai Quartieri Spagnoli a Chiaia.

Quelle di Valentina Graniero, Miss Trans di due edizioni a Torre del Lago, su cavalletti come a indicare una bellezza pittorica.

Altre sparpagliate su un tavolo che possono ricordare i momenti in cui Ferrara entrava nelle redazioni dei giornali per mostrarle, non per una lettura portfolio, ma per pubblicarle.

E altre ancora su dei leggii. Quelle del progetto Resbis. Il dualismo dei femminielli per la prima volta in mostra a Napoli.

Come metafora di libri da leggere. Immagini da leggere.

 

Resbis. Selezione di fotografie sottoposte ad un particolare intervento di cesura e ricomposizione, che richiama fisicamente e concettualmente gli interventi di chirurgia estetica a cui i femminielli, ancora prima delle star del cinema e della televisione, si sottoponevano.

- Barbara Martusciello.

 

E poi un video proiettato in loop: Femminielli in Neapel realizzato dal regista Martin Hanni, con la collaborazione di Luciano Ferrara, per il programma Rai Südtirol Minet – la trasmissione sulle minoranze nel mondo.

 

Tutte fotografie non digitalizzate, non scannerizzate, stampe originali da pellicola, ai sali d‘argento su carta baritata. Conservate in maniera eccellente, senza ingiallimenti, senza macchie. Perché furono tutte lavorate con cura, sciacquate con “tonnellate” d‘acqua, acido acetico e bagno di fissaggio in camera oscura per rimuovere qualsiasi residuo di idrochinone o altro reagente che le avrebbero ingiallite nel tempo.

 

E per vedere certa fotografia bisogna spegnere computer e telefonino.

Perché sulla rete, sui social, non potremmo mai vedere in versione integrale certe immagini che l‘algoritmo individua, bacchetta, censura, rimuove, negando una parte di cultura visuale come se anche l‘Origine du monde di Courbet fosse chissà quale bestiale icona del male e della perdizione mentre si tratta invece della nostra cultura occidentale, dai tempi della Magna Grecia e degli antichi romani, che dovremmo approfondire e trasmettere alle nuove generazioni per preservarla dall‘oblio dettato dall‘algoritmo.

 

Chiacchierare con Luciano Ferrara è come aprire incautamente la scatola di un puzzle dove tutti i pezzi saltano per aria, cadono a terra, altri si poggiano addosso, altri ancora, stranamente, restano sospesi come in una scena al rallenty di un film in cui vedi le pallottole dove e come vanno a colpire.

E, per capire lo sviluppo di un progetto come questo di Sirene tra i fari, devi raccogliere quei pezzi per ricomporre ricordi in salti temporali dell‘arco di anni che vanno dal 1979 al 2000.

E perdonatemi se questo articolo sembra un po‘ dissociato: toccherà a voi mettere insieme i pezzi. Che probabilmente non vanno nemmeno messi necessariamente insieme perché le storie, a volte, non hanno bisogno di una cronologia, ma possono essere un mix, un cocktail di notizie, episodi, aneddoti che si incastonano tra loro rendendo poi il tutto cristallino.

 

1979.

Luciano Ferrara ha lo studio in via Chiatamone al civico 6.

All‘epoca non c‘era la movida napoletana di oggi. Per il popolo della notte solo qualche bar per Napoli che restava aperto fino a tardi e qualche forno che sfornava cornetti. O, al limite, ti buttavi dentro al City Hall Cafè o ti facevi una pizza alle due della notte a piazza Sannazzaro.

Piazza Vittoria. Il Roof Garden. La sera era frequentato da ragazzi; i neopatentati, per dirla alla boomer. Incuriositi dalla presenza dei trans che erano tra gli avventori del bar.

A quattro passi dallo studio di Ferrara. E ci andava anche lui per un caffè. Uno scatto al volo con la Leica a due ragazzi che si baciavano lì fuori, fu l‘inizio della sua ricerca su questo strato sociale partenopeo che il perbenismo tendeva a mettere sotto al tappeto.

Inevitabile per lui entrare in contatto col popolo trans di piazza Vittoria.

Le prime fotografie gliele pubblicò Michele Santoro quando era direttore di La Voce della Campania, testata leader di servizi d‘inchiesta.

Tony Di Pace, direttore di NapoliCity stampava personalmente le foto nella darkroom di Luciano.

Vide le prime foto di quei trans e gliene pubblicò un paio sulla sua testata che andava per la maggiore in quel periodo.

 

Io ricordo le foto che scattò in via Verdi. Altra zona che brulicava di trans di gran classe che sembravano uscire da riviste patinate di alta moda. E non si riusciva a immaginare che venivano dai bassi dei Quartieri Spagnoli.

Non era facile far loro delle foto. Non solo perché non era da tutti entrare in confidenza coi soggetti ma anche perché un obiettivo luminoso, aumentare la sensibilità della pellicola dallo scatto allo sviluppo fino alla stampa era per chi la fotografia la mangiava ogni giorno e ci mangiava.

Sempre pellicola bianconero. Tri-X Pan 400 ASA tirata a 800 ASA.

 

Per oltre 20 anni, tra un corteo di disoccupati, un reportage sulla guerra in Libano (‘83), una ricerca sulla Legge 180, la caduta del Muro di Berlino, le immagini iconiche sulle Vele di Scampia, Guerra nel Golfo, in Albania ed altro ancora, Luciano non perde di vista i fenomeni socio-culturali di Napoli tenendo d‘occhio le minoranze come i femminielli.

Un tema diventato a lui caro grazie anche alle letture di Nel segno di Virgilio di Roberto De Simone che lo affascina in particolar modo; Porporino di Dominique Fernandez; Scende giù per Toledo di Patroni Griffi. Uno studio personale fondato anche sulle storie di Annibale Ruccello ed Enzo Moscato.

 

Non è una carne a parte ma è carne nostra. Ci appartiene. Fa parte del cuore pulsante di Napoli.

I femminielli pensano due volte. Ragionano su due binari differenti e contemporaneamente, andando oltre il pensiero standard.

Motivo per cui le persone si consigliavano da loro per cose della vita o anche per affari di cuore.

 

Il rapporto di Luciano Ferrara con femminielli, trans, pornostar (fu accreditato per fotografare nel backstage di Erotica Tour) e con tutte le minoranze che ha seguito, è sempre stato basato sull‘empatia, ma anche sull‘amicizia.

A lui interessa entrare con lentezza nelle loro vite. Raccogliere confidenze spontanee come chi raccontava di evitare l‘intervento a Casablanca perché i clienti uomini preferiscono la loro doppia entità.

Femminielli e trans li andava a trovare nei bassi, mangiavano insieme, chiacchieravano quando si incrociavano per strada. Spesso senza scattare una sola foto con la Leica o con la Nikon F.

Le sue immagini non trasmettono mai volgarità ma un glamour a cavallo tra il fotogiornalismo e un erotismo sofisticato, sereno, confidente, che potrebbe ricordare certi lavori di fotografi di moda degli anni ‘80-‘90. Fotografie in camera da letto, per strada alla luce dei lampioni, ritratti idilliaci con obiettivi 24, 35 o 50 mm.

Immagini pubblicate in tutto il mondo e dai principali magazine nazionali come Sette, Venerdì di Repubblica e su Playboy.

 

Le sirene di Napoli sono sempre state protette dalle loro famiglie d‘origine anche se qualcuna ha preferito andare a vivere per conto proprio. Sui Quartieri Spagnoli la domenica mattina, negli anni ‘50-‘60, era sempre festa con loro tra allucchi (urla), finti appiccichi (litigi), tombolate e inciuci avanti ai vasci (bassi).

Oggi i Quartieri hanno una vocazione turistica che ne ha un po‘ snaturato l‘essenza originaria, ma abbiamo questo piccolo grande patrimonio testimoniale di Luciano Ferrara che ne ha immortalato la “carne” dal 1979 al 2000.

Quella del resbis, l‘unione biologica, quasi alchemica, di due entità diverse.

Sirene tra i fari, non vi dovete legare ad essi. Spegnete i display. “È carne nostra”.


 

Nota a margine:

La Soprintendenza archivistica e bibliografica della Campania, ritendendo rilevante l‘Archivio privato Ferrara per la qualità, per consistenza e per stato di conservazione del materiale, ha recentemente avviato il procedimento di dichiarazione di particolare interesse culturale, come previsto dall‘art. 14 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D.Lgs n.42/2004).

 

 

Sirene tra i fari.

Opere di Luciano Ferrara

Palazzo Diomede Carafa

presso la sede della Soprintendenza archivistica e bibliografica della Campania

via San Biagio dei Librai, 121

dal 27 settembre al 25 ottobre 2024

dal lunedì al venerdì, dalle 9.00 alle 13.00.

Apertura straordinaria sabato 29 settembre, dalle 9.00 alle 13.00 in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio 2024.
Ingresso libero.

23.09.2024 # 6449
La Luce Scritta a Montecchio

Federica Cerami //

Broken Mirror

Il mondo Coreano attraverso lo sguardo contemporaneo di Filippo Venturi

Quest’anno, al Festival FotoIncontri di San Felice sul Panaro, organizzato dal Circolo Photoclub Eyes, ho avuto il gran piacere di vedere la mostra Broken Mirror del fotoreporter Filippo Venturi.
Mi sono immersa in questo racconto fotografico, perdendo la cognizione del tempo e dello spazio: nulla mi ha richiesto di ritornare, fino a quando non è iniziata la conferenza di presentazione.
Perdersi credo sia una esperienza evolutiva molto importante sia per un fruitore di fotografia che per un fotografo.
Mimmo Jodice, nella sua lectio magistralis del 2006, tenuta presso l’Università degli Studi Federico II di Napoli, disse: “C’è una frase di Fernando Pessoa che ripeto spesso perché mi rappresenta: “Ma che cosa stavo pensando prima di perdermi a guardare? Ecco la mia inclinazione naturale: perdermi a guardare, contemplare, immaginare, cercare visioni oltre la realtà…”
 
Venturi racconta con queste parole il suo lavoro: 
“Broken Mirror è un lavoro artistico che utilizza il linguaggio documentaristico, in cui ho fuso la mia percezione della Corea del Nord con quella di un‘intelligenza artificiale. Ho utilizzato il software Midjourney, a cui ho spiegato nel dettaglio il risultato che volevo ottenere, ripetendo l‘operazione per centinaia di volte per ogni immagine, finché non ho ottenuto un risultato simile a quello che avevo immaginato.
Ho inserito nelle scene di vita quotidiana dei nordcoreani un elemento estraneo, sotto forma di insetti che assumono dimensioni sempre più grandi e invadenti, al punto che sembrano avere il controllo sulle persone. Infine, i nordcoreani stessi si trasformano in insetti, completando così il dominio subìto”.
Con Broken Mirror entriamo nel vivo del dibattito contemporaneo, relativo all’utilizzo dell’IA, andando oltre la logica manichea che nel corso della storia dell’arte ha spesso opposto una inutile resistenza verso ogni novità creativa che si è affacciata al mondo e proviamo, invece, ad abbracciare una idea ampia di narrazione.
La narrazione, da non confondere con il racconto, porta con sé una forte componente emotiva e risulta essere, in tal senso, molto più coinvolgente e interessante.
Narrare ci aiuta a dare un senso agli eventi che altrimenti risulterebbero essere un mero elenco di vuoti accadimenti posti in ordine cronologico e ci conduce anche verso la comprensione di noi stessi e della nostra relazione con il mondo. 



Questo è un dibattito molto lungo e assai articolato, ma sostanzialmente credo che, con le mie premesse, limitare le possibilità di costruire e presentare una storia non faccia del bene né agli autori e né tantomeno ai suoi fruitori.
Perdersi, perdersi a guardare, fantasticare guardando il mondo, ricostruendolo con il proprio portato emotivo e immaginativo: lo abbiamo fatto con i dipinti, poi con la fotografia analogica, con la fotografia digitale e ora lo stiamo iniziando a fare con l’Intelligenza Artificiale.
Più osservo questi nuovi lavori fotografici e più mi viene da pensare alle incredibili potenzialità che si sono aperte e alla meraviglia alla quale possiamo andare incontro per immergerci nei nostri desiderata e portare, con noi, tutto il nostro spazio abitato.
Perché mi ha colpito e ammaliato così tanto il lavoro di Venturi? 
La sua vena espressiva nasce da una urgenza narrativa che fa di lui, da tanti anni, un affermato fotografo documentarista e un artista visivo che ha pubblicato i suoi reportage su prestigiose riviste nazionali e internazionali.
Indaga fotograficamente, dal 2015, il territorio della Corea esplorandone i fenomeni sociali e i risultati raggiunti attraverso lo sviluppo e la crescita economica, ma anche i conseguenti effetti collaterali sulla popolazione.
Quando è arrivato al desiderio di utilizzare l’AI per continuare a parlare della Corea, l’ha fatto, quindi, conoscendo molto bene tutte le dinamiche che abitano questo territorio, avendo ampiamente sperimentato lo strumento fotografico, con un profondo senso etico del suo lavoro per poi proiettarsi nel mondo della fantascienza, nella fotografia e nella letteratura del passato e con la precisa volontà, di non avere il controllo completo del suo processo creativo.
Ritorna, quindi, la meravigliosa possibilità di perdersi, ma anche di lasciarsi andare, di pescare dal proprio vissuto, di proiettarsi nelle proprie fantasie, di esprimere in modo poetico dei non detti e di abbandonare questa strana volontà di raccontare il vero che, del resto, non è mai appartenuta alla fotografia.

22.09.2024 # 6450
La Luce Scritta a Montecchio

Federica Cerami //

Il Wabi Sabi in Fotografia

Dai pensieri di Valerio Cappabianca

Nell’imperdibile libro di Valerio Cappabianca “Fotografia Mindfulness Zen” ho trovato una serie infinita di poetiche suggestioni, spunti di riflessione e nuovi punti di osservazione che mi hanno portato a desiderare di volerli divulgare agli innamorati della fotografia. 
Un capitolo, più di tutti ha catturato la mia attenzione, per comunità di intenti, vicinanza spirituale e la veicolazione di importanti spunti didattici ed è quello nel quale Valerio racconta il concetto di Wabi Sabi per poi legarlo alla fotografia e lasciare al lettore, come in tutti gli altri capitoli, degli esercizi per poter far comprendere appieno il senso del concetto attraverso una modalità esperienziale.
Chiarire il significato a noi occidentali non è semplice perché dalla sola traduzione letterale non emerge, con completezza, il suo profondo significato. 
Il Wabi Sabi, nato in Giappone, è assimilabile a una filosofia o a una esperienza da poter vivere.
Wabi indica la capacità di accettare l’imperfezione nostra e del nostro mondo, mentre Sabi indica la delicata bellezza del trascorrere del tempo.
Il Wabi Sabi è, quindi, una visione del mondo che ci aiuta a cogliere la bellezza nell‘imperfezione, ad apprezzare la semplicità e accettare la natura transitoria di ogni cosa e, in tal senso, ci insegna a esercitare il distacco dall’idea di perfezione assoluta, per riscoprire, con gioia, la bellezza di una creazione intuitiva e spontanea.
Vorrei provare a spiegare perché lo ritengo un concetto importante per noi occidentali, in generale e per chi vive, con qualsiasi ruolo, nel mondo della fotografia.
Vengo da una formazione Gestaltica che mi ha insegnato ad amare il tempo presente, anche detto il “qui e ora”, con l’idea che il passato e il futuro siano due tremende trappole che fanno scivolare via la vita senza riuscire ad assaporarla, troppo presi, come spesso siamo, a fare i confronti con il passato, nel quale il presente ne esce sempre sconfitto o a proiettarsi nel futuro con l’angoscia di non poter avere il controllo di quello che accadrà.
Occorre, ad un certo punto del proprio cammino evolutivo, abbracciare l’idea che noi, per vivere con pienezza, possiamo stare solo nel nostro presente, respirarlo e accoglierlo per come è, senza giudicarlo, senza confrontarlo con altre aspettative per poi guardarlo, concedersi lo stupore e magari fotografarlo.
Il punto è che la nostra società, sempre più competitiva, non ragiona in termini di singole persone ma prova, spesso, a inglobarci tutti all’interno di una massa indistinta che non vede le differenze e non esalta le singole individualità.
Con queste premesse, la crescita personale è destinata a diventare un mero copione da recitare a memoria e non un libero percorso da disegnare ogni giorno sui propri passi.
Il Wabi Sabi è quindi da leggere come una sorta di indicazione di com’è realmente il mondo, ovvero imperfetto e meravigliosamente mutevole, per farci pensare che noi, abitando questo mondo ne assumiamo, inesorabilmente, con più o meno consapevolezza, le stesse caratteristiche.
In una intervista on line ho sentito dire al compianto Giovanni Gastel: tutti noi vorremmo essere tutti alti e biondi, invece entrando dentro di noi scopriamo di avere ben altre caratteristiche.
Questa frase, nella sua delicata ironia, mi ha colpito perché mi ha fatto pensare che se passiamo tutta la vita a fantasticare su irraggiungibili aspettative ci perdiamo quello che siamo realmente e il nostro magico e unico momento presente.
Se impariamo ad accettare la nostra natura, poeticamente imperfetta e unica al tempo stesso, diventerà fluido il passaggio verso un’altra consapevolezza ovvero che le nostre fotografie sono la proiezione della nostra intima natura, così come abbiamo imparato a conoscerla e a volerla raccontare.
Più conosciamo noi stessi, più accogliamo noi stessi e più il racconto fotografico del mondo che abitiamo diventerà il racconto della nostra persona e sarà pieno di morbida autenticità e facile da accogliere per gli spettatori.
Soltanto pensando, quindi, che le fotografie che realizziamo possano essere la presentazione di noi stessi saremo in grado di guardare dentro di noi per poi proiettare questo sguardo fuori di noi cercando la nostra parte di mondo pronta ad accoglierci dentro le nostre o le altrui fotografie.

Vai alla notizia sul libro di Valerio Cappabianca, sul Magazine Ilas

10.09.2024 # 6447
La Luce Scritta a Montecchio

Marco Maraviglia //

Matteo Abbondanza in mostra con Far Horizons

Le coincidenze visive degli orizzonti marini. Quando un certo schematismo rende sereni.

Fino al 19 settembre il fotografo milanese Matteo Abbondanza espone undici opere nella Casa di Dante a Firenze, il Museo dedicato al sommo poeta.

E forse non è un caso.

Non è un caso perché ricordiamo tutti la struttura “architettonica” e maniacale dei versi della Divina Commedia che non era lasciata all‘improvvisazione ma rispettava regole ritmiche dei versi, delle rime e che sfioravano la pura matematica.

Un equilibrio armonico, ritmico, i cui principi furono seminati da Aristotele, Platone e da altri filosofi greci. L‘ordine contro il caos.

E Matteo Abbondanza sono circa 8 anni che, dopo un percorso di fotografia “street”, ha iniziato a realizzare le sue immagini depurandole sempre più di contenuto dedicando maggiormente l‘attenzione alla forma. Le immagini che ci propone in questa mostra, sono schematiche, geometriche, ordinate, equilibrate, armoniche.

 

C‘è troppo caos dentro di me per riuscire a sopportare anche quello fuori da me. Per questo i miei scatti sono puliti e armonici: con la fotografia cerco di mettere ordine nel mondo esterno, non riuscendo a metterlo nel mio mondo interno.

 

Provate a fare un esperimento: se avete la scrivania incasinata, mettetela in ordine, rimuovete tutti gli oggetti che non servono, scrivete su un foglio di carta tutte le cose che dovete fare a breve/media/lunga scadenza, mettete le carte nei folder da riporre poi su uno scaffale. E pulitela pure questa povera scrivania. Una volta seduti nella vostra postazione di lavoro, noterete che la mente inizia a rilassarsi e tornerete a un punto di partenza fatto di benessere mentale che offre maggiore concentrazione. Banale ma funziona.

Fate un altro esperimento: procuratevi uno spartito in bianco, scriveteci voi le note sul foglio, poi andate da un musicista e chiedetegli di suonare ciò che avete scritto sul pentagramma. Ne uscirebbe un brano rumoroso, cacofonico, sperimentale forse. Con molta probabilità, non sarà musica orecchiabile.

 

Nell‘era classica i canoni della bellezza erano il risultato di studi geometrici. Il rettangolo aureo per strutturare un tempio, la distorsione prospettica per esaltare l‘imponenza di certe statue, archi ideali che si intersecano nel Discobolo.

Proporzioni, geometrie, diagonali ed ellissi complementari, rapporti fibonacceschi… sono regole impiegate anche nella pittura. Il disegno preparatorio non era dettato dall‘impulso dell‘artista ma seguiva una composizione che dava un senso di lettura compiuto dell‘opera finale. Senza rumore visivo. Senza stonature. Una sinfonia visiva!

 

Del resto anche nella grafica classica si seguono griglie. Che sia per la composizione di un logo o per l‘impaginazione di un libro illustrato. Le regole si possono infrangere se si conoscono a menadito le basi.

Se Rhein II di Andreas Gursky è la foto più quotata di tutti i tempi, probabilmente è anche per la sua struttura compositiva: un equilibrio estremo degli spazi tra i rettangoli orizzontali. E forse Gursky non si sarà mai reso conto dei rapporti proporzionali di quella sua foto.

 

Matteo Abbondanza con Far Horizons segue con delicatezza e sensibilità i geometrismi di cui sopra. Senza che le immagini risultino raffazzonate o forzate, ma con un‘estetica ricercata dove le forme creano coincidenze tra opere dell‘uomo e la natura in cui il mare, con il suo orizzonte, fa la sua parte. Equilibri tra colori, luci ed ombre parallele e perpendicolari in cui a volte la prospettiva di un elemento o le sue diagonali, riportano profondità nella visione.

E ritroviamo quel benessere mentale, quella stessa sensazione di pace di quando ci sediamo alla nostra scrivania riordinata.

Senza rumori visivi. Distaccandoci dalla realtà. Accorgendoci che la realtà può essere vista nel suo lato più essenziale. Eliminando il caos intorno. E quello dentro di sé.

 

Matteo Abbondanza

È un fotografo di Milano. Ha esposto a Roma, Milano, Venezia, Firenze, Assisi, Torino, Trieste, Mantova, Lodi, New York e Budapest sia in mostre collettive, sia personali.

Hanno scritto di lui: L‘oeil de la photographie, Exibart, The pure inner, Aperture Magazine, Bagzine, Woofer Magazine, Il Giornale Off, Mag72, Wikiradio, La strada d‘Italia e diversi quotidiani italiani. Nel 2021 ha collaborato con Einaudi Editore. Nel 2023 ha pubblicato il suo primo libro: “la forma è il contenuto”. Sito web: www.matteoabbondanza.com

 

 

 

FAR HORIZONS

Di Matteo Abbondanza

A cura di Giancarlo Bonomo e Rita Raffaella Ferrari

Società delle Belle Arti, Circolo degli Artisti presso Casa di Dante

via Santa Margherita 1 R, Firenze

dal 7 al 19 Settembre 2024
dal martedì a domenica 10.00-12.00 e 16.00-19.00 (chiuso il lunedì).
Ingresso libero

 

Con il patrocinio del Comune di Firenze, in collaborazione con Club per l‘UNESCO di Firenze e Udine.

 

Contatti

info@matteoabbondanza.com



03.09.2024 # 6440
La Luce Scritta a Montecchio

Marco Maraviglia //

Paolo Manzo in mostra con gli invisibili di “La Città Invisibile”

Disagi economici, culturali, urbanistici di Napoli in un progetto fotografico lungo oltre 10 anni

La fotografia sociale è come un “lavoro sporco” che non tutti i fotografi si sentono di fare. Almeno non nelle modalità adottate da Paolo Manzo. Entrare nella storia, in punta di piedi, conoscere di persona i soggetti da riprendere, trascorrerci insieme ore o più giornate intere. Documentare il contorno, l‘ambiente in cui ha luogo la storia da documentare. Resistere alle sofferenze altrui come un chirurgo che deve salvare vite e deve saper avere anche quell‘empatia per relazionarsi con i familiari del paziente.

Paolo Manzo è un attento lettore del sociale. Osserva e coglie il problema con i suoi effetti. Raccoglie il “brief” della notizia: cosa è successo, perché è successo, dove, quando, perché.

Senza pregiudizi, senza intervenire per guarire un male come farebbe il chirurgo, ma semplicemente documentando degrado, sofferenza, aspetti della vita oltre i confini della quotidianità “normale”. Quella considerata del proprio salotto, per intenderci.

Perché il malessere del degrado delle periferie non è lui a doverlo guarire. Ha solo spazio per denunciare. Rendere visibile ciò che è invisibile in certi salotti o quel che viene messo sotto il tappeto in certe stanze. Attraverso la fotografia.

Paolo Manzo ha l‘accortezza di non testimoniare quei “valori” esaltati da certe fiction. Lui coglie invece il lato umano delle situazioni di disagio. Identifica disuguaglianza economica, ingiustizia sociale, segregazione urbana, nell‘assenza di iniziative culturali ed educazione al bello che dovrebbero essere i cardini per qualsiasi civiltà di ogni parte del mondo affinché non si demoralizzi.

 

Durante l‘adolescenza, mentre percorreva in auto col padre una zona di periferia di Napoli, vide dal finestrino i cosiddetti “casermoni dormitorio”, alti edifici in cemento armato e si chiese se gli abitanti vivevano allo stesso modo della sua famiglia.

L‘imprinting di un ragazzo di periferia anche lui e che adotta poi la fotografia per osservare, analizzare, denunciare la vita del Nord Est e Ovest di Napoli. Territori anarchici, sotto certi aspetti, dimenticati dai flussi di denaro istituzionali che dovrebbero invece renderli a misura d‘uomo.

 

Napoli risulta essere una delle città italiane con il tasso di criminalità più alto al mondo, dove la povertà educativa è un problema crescente e il numero di giovani NEET (not in Employment, Education or Training) è in aumento. Le opportunità per i giovani sono strettamente legate alle condizioni economiche e culturali delle loro famiglie, e l‘ambiente suburbano aumenta il rischio di abbandono scolastico e di coinvolgimento in attività illegali, creando un senso di precarietà che alimenta un circolo vizioso e peggiora le condizioni di chi vive. 

-       Paolo Manzo

 

Paolo Manzo documenta dal 2012 queste zone. Da quando, dopo il terremoto dell‘80, ci fu il flusso migratorio dall‘Irpinia e degli sfollati del centro storico verso le zone periferiche di Napoli: Afragola, Caivano, Ponticelli, Secondigliano, Torre Annunziata, Pianura e Scampia.

Un progetto pubblicato a più riprese su varie testate nazionali e internazionali.

 

Bio

Paolo Manzo è un fotografo che risiede e si è formato a Napoli (Italia) e allo “IED” (Istituto Europeo di Design) di Roma.

Pubblica su Vanity Fair, La Repubblica, Millennium e riviste internazionali come Stern Crime, Focus Magazine, Edition Gallimard e El Pais con cui collabora da 5 anni.

Ha ricevuto il Pierre & Alexandra Boulat Award 2023 e il 2° Premio BarTour Photo Award 2023.

 

 

La Città Invisibile

Di Paolo Manzo

36° edizione Visa Pour L‘Image

Eglise Des Dominicains

6 Rue François Rabelais

Perpignan - Francia

Dal 31 agosto al 15 settembre 2024

www.paolomanzo.com



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