Marco Maraviglia //
Michael Ackerman, Homecoming. New York/Varanasi/Napoli
Tornando a casa, con un taccuino carico di appunti ai sali d‘argento, dai bordi strappati, come racconti da leggere dentro
Tornando a casa. Ma si è sicuri di tornare a casa? Siamo convinti di avere parametri certi che definiscano il concetto di “casa”?
Cos‘è una casa? Uno spazio dove sentirsi protetti e custodire roba accumulata durante la nostra esistenza che non potremo portarci dall‘altra parte della vita?
Un tetto che ti dia la sicurezza del focolare domestico con un partner, figli, il gatto o il cane, l‘angolino bar dove sai che puoi farti un cicchetto quando vuoi?
Il luogo dove hai acqua, gas, luce, elettrodomestici e il letto per dormire?
È tutto indispensabile?
Giovanni Verga alla fine dell‘800, con la sua novella La roba cercò di dirci qualcosa in merito.
Cosa serve per vivere? Forse la sola stessa vita è sufficiente. La casa è dentro di noi. Sentirsi a casa, e ovunque, è cosa diversa rispetto a essere a casa o di tornare a casa. Sentire o essere? Un po‘ shakespeariano il senso ma ci serve per trovare una chiave di lettura del lavoro di Michael Ackerman.
Sentirsi a casa in ogni luogo è forse una questione di stabilità emotiva esercitata vivendo l‘effimero, con la privazione, con la consapevolezza che nulla è per sempre. E quindi è possibile vivere con l‘essenziale. Dove ambizione e desiderio di possedere punti di riferimento fisici, sono sopraffatti dall‘esperienziale puro. Dagli istanti di centesimi di secondo che rubano il mondo che percorriamo.
A un madonnaro chiesi cosa provava nel sapere che dopo qualche giorno le sue opere disegnate sui marciapiedi scomparivano sotto il calpestio dei passanti e della pioggia: «È una sensazione bellissima. Impari a non legarti alle cose e che la vita continua». Puoi ricostruire ciò che è andato distrutto. Meglio o comunque diversamente. Tutto passa. Tutto ci scorre avanti ad alta velocità e non possiamo portarci tutto dietro. Ma forse dentro sì perché cuore e mente sono più capienti di una valigia o di un tir per un trasloco.
Non ho mai avuto la certezza di una casa. Sono nato in Israele, cresciuto a New York e ora vivo con mia moglie e mia figlia a Berlino. Ho sempre saputo di essere un outsider e mi sento legato ad altri outsider, ai paesaggi urbani e non, e agli animali che incarnano questo spirito. Sono guidato dal bisogno di guardare al di là della superficie e delle facciate. In un certo senso, di vedere l‘invisibile.
-Michael Ackerman
Michael Ackerman è uno sketcher della fotografia. I suoi sono schizzi ai sali d‘argento. È come se fossero acquerelli di luce realizzati con matite consumate. Dure, grasse o a carboncino. In questi appunti di carta fotosensibile si impongono la grana di pellicole tirate anche a 3200 ISO, le macchie di arresto parziale dell‘emulsione, vignettature, le infiltrazioni di luce di fotocamere vintage ormai non più a tenuta di luce.
È l‘effetto-Holga, la toy camera accessibile a tutti ma usata intenzionalmente e magistralmente per creare contenuti fotografici outsider. La fotocamera qui non serve per fare la bella o la buona fotografia, ma è l‘istante che fa la foto. L‘estetica qui è nella sveltina, intensa, piena, di vita vissuta. Perché la fotografia, quando è passione, è anche come un amplesso rubato dal tempo. E non è lo strumento che fa la foto, ma l‘istante e il ricordo che viene congelato in quell‘attimo stesso. Quel che resta.
Ackerman non cerca mai “l‘istante decisivo” come altri fotografi ma cattura quel momento tra i momenti, quell‘attimo in cui l‘inaspettato o l‘invisibile si rivela, cogliendo non ciò che vediamo, ma ciò che sentiamo.
- Sarah Moon, fotografa
Quel che deve restare è l‘emozione, l‘attimo, quel magico accordo tra luce, incontro col soggetto e scatto che non necessariamente deve mostrare il visibile, ma l‘intravisto o il percepito, il ricostruire tra i puntini della grana il vuoto: chiudere mentalmente ciò che non si vede ma c‘è. Come nudi velati che intrigano ma senza mostrare.
Queste di Michael Ackerman sono appunti sciolti, spaiati come pezzi di carta lasciati liberi sulla scrivania dopo aver parlato al telefono oppure raccolti come taccuini di viaggio. Alcune sequenze sono stampate come piccole fisarmoniche ricordando i souvenir vintage o certi blocchetti per appunti da viaggio della Moleskine.
I suoi ritratti, posati o fugaci, mettono a nudo le emozioni di un‘umanità che è allo stesso tempo cupa, tenera, vulnerabile, persino dolce. Sono frutto di profonda empatia e affetto.
Immagini composte in trittici, dittici, usate in sequenza, in formati diversi, scandiscono un ritmo e una narrazione quasi cinematografici.
- Cristina Ferraiuolo
Sono soggetti ripresi tra New York e Varanasi. Città ad alta densità di stimoli visivi. Alta densità di varietà umana, di spunti di vita e di vista. Sarebbe impossibile fotografare tutto e secondo i canoni tecnici classici. Perché se ne sminuirebbe il concept ackermaniano. Perché nelle metropoli tutto avviene in tempi esponenziali. Michael Ackerman nei suoi scatti volutamente “trascurati”, ci restituisce quelle atmosfere dove anche gli animali hanno un ruolo da protagonisti in quel rapporto di convivenza con gli umani sul pianeta.
Ma è lo “strappo” una delle caratteristiche più particolari del lavoro di Ackerman.
Come se fossero provini di stampa, parte delle foto esposte hanno i bordi strappati a mano. Il che fa tutt‘uno con la ricerca estetica di Michael Ackerman descritta fin qui.
E l‘apoteosi dello “strappo di Ackerman” è sulle pareti di un angolo della Spot home gallery, dove sono applicati ritagli di provini di stampa che fanno entrare idealmente il pubblico nella camera oscura di Michael.
Lo “strappo” come marchio di riconoscimento. Appunti di “acquerelli di luce” ai sali d‘argento, quasi come se fossero note di spesa strappate casualmente da un vecchio foglio di carta.
Perché tutto è effimero, riscrivibile. Il confine del definito è solo questione di forma mentis.
Chi torna a casa, sa che ritroverà quegli appunti e dove: dentro di sé. Riconoscendoli anche al buio perché la casualità dello strappo sui bordi, li rende diversi l‘uno dall‘altro. Ogni bordo è il segno di un ricordo emotivo, come se fosse raccontato in una specie di braille: "lo strappo Ackerman".
Biografia
Michael Ackerman è nato a Tel Aviv nel 1967. All‘età di 7 anni la sua famiglia è emigrata a New York, dove è cresciuto e ha iniziato a fotografare all‘età di 18 anni. Ha esposto in mostre personali e collettive in tutto il mondo e ha pubblicato 5 libri, tra cui End Time City, edito da Robert Delpire, che ha vinto il Prix Nadar nel 1999. Le sue opere sono presenti nella collezione permanente del Museum of Fine Arts di Houston, del Museum of Modern Art e del Brooklyn Museum di New York, della MEP e della Biliothèque Nationale in Francia, oltre che in molte collezioni private. Attualmente vive a Berlino.
Michael Ackerman
Homecoming
New York • Varanasi • Napoli
dal 13 aprile al 30 giugno 2023
Spot home gallery
via Toledo n. 66, Napoli
+39 081 9228816
info@spothomegallery.com
www.spothomegallery.com
In copertina: © Michael Ackerman. New York, 2021