Marco Maraviglia //
Gianni Berengo Gardin. L‘occhio come mestiere
Oltre 200 fotografie che raccontano l‘Italia dal dopoguerra a oggi. Un mondo estinto o che sta scomparendo
Tenetevi forti! L‘uomo da quasi 2milioni di scatti fotografici è qui.
Quello che non usa mai il 50 mm perché preferisce il 35 mm per stare più dentro la scena. Quello che timbra dietro le sue stampe fotografiche “vera fotografia”, antagonista del digitale, perché lavora solo con pellicola e stampe ai sali d‘argento. Perché solo così sa che può toccarla e avvertirne il possesso. È il fotografo dai quasi 260 libri pubblicati tra cui 30 con il Touring Club Italiano. Perché i giornali lo facevano lavorare poco anche se ha collaborato con riviste come Domus, Epoca, Le Figaro, L‘Espresso, Time, Stern.
È quello che, dopo aver fotografato Giuseppe Ungaretti durante una manifestazione studentesca a Venezia, la polizia caricò e un poliziotto gli spappolò il pollice con una manganellata. E gli è rimasto il bitorzolo. E anche la foto del poliziotto che immortalò con la sua Leica mentre era rincorso.
Quello che ebbe da Ugo Mulas un simpatico rimprovero perché non conosceva la differenza tra una fotografia bella e una buona fotografia.
È quel fotografo che quando propose le sue prime fotografie di Venezia, otto editori che contattò gliele bocciarono perché non era una Venezia “turistica”. Ma gli pubblicò il libro un editore svizzero e fece il botto.
Eh sì, c‘è Gianni Berengo Gardin a Napoli. Classe 1930. In realtà a Napoli c‘è già stato diverse volte di persona per fotografare e alcuni degli scatti che ha fatto, sono presenti tra le oltre 200 fotografie in mostra alla Casa della Fotografia in Villa Pignatelli andando a implementare le immagini già esposte al MAXXI di Roma nel 2022.
Si suggerisce di andarci con un paio di tramezzini e acqua per osservarle tutte con calma.
Perché non è una passeggiata. Cioè sì, lo è ma lunga, nello spazio e nel tempo. Perché si attraversa l‘intero stivale, da Nord a Sud, dagli anni ‘50 a oggi.
Una faticata? No. Un piacevole viaggio che inizia dalle gigantografie che ritraggono i dettagli del suo atelier mansardato. Ordinato in maniera quasi maniacale: in una di queste foto non si vede perché è in bianconero, ma gli attrezzi per bricolage ritratti sono tutti dipinti in rosso per avere un certo ordine. Un ordine forse scaturito da un‘esperienza sgradita, se non traumatizzante: di quando durante un trasloco perse alcune foto che fece a Parigi, comprese quelle fatte a Jean Paul Sartre.
E poi si attraversano le altre sale con fotografie esposte in un percorso volutamente non cronologico. Ragazzi che ballano in spiaggia con un vecchio grammofono; un lungo bacio di una coppia sotto i portici e la durata di quel bacio è determinata dai piccioni a terra che sono mossi.
Sono un guardone. Il fotografo deve essere un guardone, un curioso, con uno sguardo che vada oltre la fisicità dei soggetti.
Le foto di Gianni Berengo Gardin sono tutte rigorosamente in bianconero. Perché è cresciuto col cinema, la tv, la fotografia in bianconero e il colore, come lui e altri grandi fotografi della sua generazione sostengono, distrae l‘attenzione dalle scene ritratte.
Nelle sue immagini vediamo un mondo che, per certi versi, sta scomparendo o è già finito. È la missione consapevole e progettuale di Berengo Gardin: lavorare per l‘archivio per tramandare ai posteri il “come eravamo”.
Come stava, cosa faceva, come viveva la gente nelle città italiane. Per le strade, sulle spiagge, durante le feste, i lavori in strada o, come quella di un basso napoletano da lui immortalato: un negozio di scarpe nella casa. I villaggi Rom, i luoghi rurali, l‘Aquila colpita dal terremoto, i personaggi che ha incontrato come Cesare Zavattini che scrisse per lui alcuni testi dei suoi libri, Peggy Guggenheim, Sebastiao Salgado, Ugo Mulas, Dario Fo… E poi, gli operai delle fabbriche e dei cantieri. Indagini sociali e urbanistiche di un‘Italia che andava rinnovandosi, si trasformava durante il babyboom, fino a giungere negli ultimi anni alle foto di denuncia delle grandi navi a Venezia.
Amavo molto Venezia, poi è stata assassinata dal turismo.
Documenti fotografici che fanno ormai parte dell‘iconografia del Belpaese. Come le immagini realizzate per l‘Olivetti che mostrano l‘umanità della fabbrica con spazi destinati a servizi sociali e culturali per le famiglie dei dipendenti.
O quelle sulle condizioni dei degenti nei manicomi italiani, realizzate per il libro Morire di classe, in tandem con Carla Cerati. Immagini struggenti che sensibilizzarono ulteriormente l‘opinione pubblica e lo stesso Franco Basaglia che si batté per la Legge 180.
Alcuni suoi libri già documentano un‘Italia che non c‘è più, altri saranno documenti per il futuro.
Il vero DNA della fotografia è la documentazione.
Non sono un artista, non voglio passare per un artista, assolutamente… io sono uno che racconta quel che mi succede intorno, sono un testimone della mia epoca.
La fotografia per Gianni Berengo Gardin, non è un divertimento, ma un vero e proprio impegno sociale. Non ha frequentato scuole di fotografia, si è formato dalla lettura dei libri, entrando in contatto con i luoghi e le realtà sociali in essi descritte. A tal fine, furono per lui utili persino le figurine della Liebig di cui possiede ancora la collezione. E poi ha imparato da centinaia di libri di fotografia. Di vecchi fotografi e qualcuno tra i più giovani. E considera suo maestro assoluto Willy Ronis (1910-2009) per l‘aspetto della fotografia umanista.
L‘Italia di Giani Berengo Gardin è un mondo che scompare e, per certi versi è già finito. Come disse Goffredo Fofi, nelle sue fotografie vi sono volti dell‘epoca che non esistono più. Quelle espressioni di un popolo povero ma felice, laborioso in cerca di riscatto, creativo, intraprendente, è un‘altra storia.
Ma nulla scompare per sempre. Perché restano come testimoni gli oltre 250 libri che Gianni Berengo Gardin ha pubblicato. A volte collaborando con fotografi come Gabriele Basilico, Luciano D‘Alessandro, Ferdinando Scianna, l‘architetto Renzo Piano.
E alcuni di quei libri sono esposti in questa mostra, da vedere da soli o con i figli. Per mostrar loro “come eravamo”.
Magari inquadrando il QR code per essere accompagnati dalla voce di Gianni Berengo Gardin che racconta in prima persona aneddoti e ricordi legati alla sua vita personale e professionale.
L‘occhio come mestiere, Gianni Berengo Gardin
a cura di Margherita Guccione, Alessandra Mauro, Marta Ragozzino
Villa Pignatelli, Casa della fotografia- Napoli,
6 aprile - 9 luglio 2023
Foto di copertina: Una grande nave in bacino San Marco, Venezia, 2013; © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia
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