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18.01.2023 # 6198
Sei un fotografo eco-sostenibile?

Marco Maraviglia //

Sei un fotografo eco-sostenibile?

Byte-inquinamento: alcune cattive pratiche della fotografia digitale dannose per l‘ambiente e come evitarle

La rivoluzione del III millennio

C‘era una volta la fotografia analogica, ma c‘è ancora per qualcuno.

C‘erano una volta le pellicole fotografiche e le stampe ai sali d’argento. Ma esistono ancora.

Dalla nascita della fotografia fino alla fine del ‘900, c‘è stata tanta chimica che ha prodotto fotografie. Un fardello, per qualche fotografo ambientalista. O anche animalista, visto che la gelatina delle emulsioni per pellicole e carte fotografiche era prodotta anche dal trattamento di ossa bovine e suine. Scarti di macellazione, si intende.

Poi arrivò la fotografia digitale.

Meno pellicole prodotte. Meno prodotti chimici per gli sviluppi, arresti, fissaggi di pellicole e carte.

 

Ma la fotografia è diventata più green con il digitale?

Sotto l‘aspetto chimico-industriale sì. Ma forse non tutti si rendono conto che le nuove tecnologie, se spropositatamente utilizzate, comportano ben altri problemi ecologici.

Tutti ascrivibili in una locuzione poco usata: il byte-inquinamento.

 

La foto sofferta

Quando si scattava su lastra fotografica o su pellicola piana in grande formato, si facevano due-tre foto di un soggetto. Poi arrivarono le pellicole in rullo: da 12p (dodici pose, dodici scatti) se si usava una Rolleiflex o un‘Hasselblad o altra fotocamera di medio formato 6x6; e poi i rulli da 36p (trentasei fotogrammi) per chi usava una reflex meccanica-manuale. Ogni scatto preso era sofferto. Si pensava di inquadrare e comporre per bene l‘immagine. L‘esposizione doveva essere curata. Perché poi, meno tempo si perdeva in camera oscura per cropparle (taglio per dare una migliore inquadratura), mascherarle e bruciarle, meglio era. Perché le pellicole e stampe avevano un costo e costava svilupparle.

 

Col digitale cambia tutto

Ormai le schede di memoria delle macchine sono così capienti in termini di gigabyte che ci hanno tolto la preoccupazione dell‘ultimo scatto in camera. L‘ultimo colpo da “tenere in canna” per non perdere la foto dell‘ultima occasione che poteva essere imprevista, all‘ultimo minuto. Quando si usava la pellicola.

Si girava la leva per caricare l‘otturatore e già quel tempo ti faceva rendere conto della preziosità della pellicola che stavi usando.

Qualcuno aveva il motore di trascinamento con i 3-5 scatti al secondo. Ma lo usavano i professionisti che non potevano permettersi di perdere il momento clou del taglio del traguardo di un atleta o di quello di un‘auto sportiva. Erano fotografi che “dovevano” spendere più soldi in pellicole perché ci lavoravano. Erano il loro carburante.

Gran parte delle fotocamere di oggi hanno lo scatto continuo.

Spesso si scatta a raffica senza riservare un po‘ di educazione e gentilezza per l‘otturatore che potrebbe stancarsi e abbandonarci.

Ma di tutti quei click, quante foto sono necessarie? Quante saranno stampate per un album di famiglia e quante per una mostra? Quante serviranno per un lavoro editoriale o per realizzare un proprio libro? E quante resteranno custodite nei supporti di memoria per anni per accorgersi poi che nel frattempo si sono auto-distrutte?

 

Quanto è eterna la foto digitale?

Tutte fotografie, quelle digitali, che occupano memoria: CD, DVD, hard disk. Qualcuno le conserva sui cloud offerti da alcune piattaforme. Ma quanto durerà la libertà di gestire le proprie foto su uno spazio che non è il nostro cardex fisico, il nostro archivio che vediamo, tocchiamo, spostiamo all‘occorrenza come se fosse un divano?

Ma, riguardo i supporti fisici, elettronici, di memoria, chi ci garantisce che avranno una durata più lunga di un negativo bianconero o di una stampa ai sali d‘argento? E, data la velocità industriale dell‘obsolescenza programmata, chi ci garantisce che i computer e software annessi ci consentiranno di leggere i file dei nostri hard disk tra 20 o 40 anni? Se ho gli scanner acquistati nel 2000 che non posso collegare a un nuovo Mac, perché non posso immaginare che accada lo stesso per gli HD? Quanti hard disk finiranno in discarica perché divenuti illeggibili, obsoleti? E i dischetti? Anche quelli possono saltare, difettarsi, diventare illeggibili. Mica sono come dischi in vinile. E dovranno essere gettati via. CD e DVD in policarbonato che in Italia non vengono riciclati e destinati quindi ai rifiuti indifferenziati.

 

Le foto inutili, ridondanti. La sovrapproduzione di fotografie digitali

Produciamo file in RAW di circa 20-40 MB. Sono negativi elettronici con tutte le informazioni che ci servono per post-produrli, “svilupparli” con softweare. Un file RAW di 20 MB, salvato poi in jpg dopo la sua lavorazione, occupa 7 MB di spazio perché è un tipo di formato che comprime l‘immagine. Virtualmente pesa 35 MB. Ma la scelta che dobbiamo fare è se conservare il RAW una volta lavorata la foto e salvata in JPEG o disfarcene. Il suggerimento è quello di conservare entrambi. Perché magari la tecnologia per lo sviluppo dei RAW si potrebbe perfezionare ulteriormente tra qualche anno e potremmo riprendere i vecchi file in RAW per ottenere immagini lavorate meglio. Conservando RAW e JPEG si aumenta il peso di memoria per l‘hard disk certo, ma dovremmo essere critici con noi stessi per eliminare i file in RAW simili a quello lavorato, cestinando gli scatti simili, quelli fuori fuoco, i sotto-sovra/esposti, quelli con punti di vista inutili, quelli ridondanti: il tuo tramonto è migliore di altre migliaia di tramonti che ci sono in rete? È una foto che stamperai per ricordo? Potrebbe essere pubblicata da un giornale? Contiene elementi socio-antropologici-architettonici evidenti che saranno soggetti a cambiamenti e quindi storicizzabile? È ben contestualizzata? Mostra un fatto in maniera eloquente sensibilizzando su un argomento in particolare? È una fotografia che secondo te spacca tanto che potrebbe essere impressa nella memoria di un osservatore e ricordata per sempre?

Più o meno queste domande dovremmo porci prima di gettare nel cestino i nostri file fotografici.

Eliminare il superfluo, insomma. Senza affezionarci troppo alle nostre foto inutili.

Meno foto = meno spazio occupato = meno supporti di memoria = meno rischio di riempire le discariche per dischetti e hard disk diventati illeggibili.

 

Non solo spazio sui supporti di memoria ma anche in rete

Carichi le foto in un album su Facebook nella stessa risoluzione dei file nativi?

Quel tempo in più che ci vuole per postarle significa che si sta sovraccaricando la linea telefonica.

Per mandare foto in visione a un giornale affinché l‘editore, o chi per lui, decida se pubblicarle, non cè bisogno di mandare i file originali ma è meglio ridurli di peso. Successivamente potranno essere spediti in alta definizione e solo quelli effettivamente richiesti.

Una foto JPEG da 35 MB può essere tranquillamente ridotta a meno di 1 MB per essere vista su un monitor.

E così anche per i siti WEB e blog, conviene ridurre le foto al formato di visualizzazione finale. Un bel “Salva per WEB” dal Photoshop, ottimizza ulteriormente le foto per gli usi di cui sopra alleggerendole e donandole una maggiore brillantezza dei colori per la visione sui display. Del resto, anche per la stampa tipografica le foto devono essere sistemate nel formato di stampa finale in cm (centimetri) a una risoluzione di 240-300dpi.

 

Traffico sulle autostrade

Immaginiamo un‘autostrada a tre corsie. A un certo punto entra una colonna di autotreni con i rimorchi vuoti. Difficile che i tir viaggino senza carico perché sono organizzati in modo tale da sfruttare l‘andata e il ritorno a pieno carico. Ma se entrano in autostrada privi di merce, ingombrano comunque inutilmente una corsia rallentando le altre. I veicoli in tal caso, consumano più carburante perché viaggiano in un tempo maggiore.

Dovremmo considerare le vie telematiche come autostrade. Il tir che viaggia a vuoto è come se fosse il nostro file trasmesso a 30 MB invece di 1 MB: occupa inutilmente spazio intasando, rallentando, il traffico telefonico.

«Eh, ma io ho la fibra!». Giusto, ma siamo arrivati alla fibra perché i modem a 56kbps e poi l‘ISDN e poi l‘ADSL non riuscivano più a supportare l‘enorme traffico della rete. Aumentato perché è cresciuto il numero di utenti ma anche perché ci sono quelli che utilizzano la rete, inconsapevolmente, in maniera inappropriata. Oltre il necessario.

Non possiamo immaginare di costruire autostrade a dieci corsie. Sarebbero tanti ettari di boschi e campagne cementificati. Probabilmente non sarebbe nemmeno necessario il 5G, il 10G o il 100G per aumentare la velocità delle connessioni se usassimo i dispositivi digitali in modo strettamente indispensabile per trasferire dati.

Magari invece di allargare le autostrade si potrebbe incentivare l‘uso di auto più piccole o progettarle a due piani. Chissà se il Joint Photographic Experts Group (JPEG) ottimizzerà in futuro il formato per file fotografici più compressi e “a due piani”.

 

I siti WEB dei fotografi sono sostenibili? Sono ecologici?

Più foto ci sono su un sito, più emissioni di CO2 si producono. Specie se sono anche pesanti e non ottimizzate con il “salva per WEB” da Photoshop.

Jack Amend, fondatore e CEO del Web Neutral Project, una società che mira a mitigare la dipendenza di Internet dai combustibili fossili, ha dichiarato che «Internet è la più grande macchina produttrice di carbonio al mondo».

Ci sono diverse piattaforme in rete che misurano le emissioni di CO2 dei siti WEB come ad esempio Karmametrix. Sarebbe bene testare le pagine in costruzione di volta in volta durante l‘allestimento del proprio sito.

Ovviamente il discorso vale anche per l‘invio di mail: più megabyte trasmettiamo, più CO2 produciamo.

Senza poi contare la quantità di server che, per ospitare i nostri siti WEB, devono crescere sempre di più e che, per restare accesi, emettono anch’essi CO2.

 

Riepilogo

Insomma, la consapevolezza delle nostre azioni dovrebbe portarci a governarle per gestirle in maniera più eco-sostenibile. A pochissimi fa piacere di contribuire all‘emissione di CO2 e piccole azioni servono ad arginare il problema.

Come dice un vecchio proverbio «Se tutti spazzassero fuori la porta di casa propria, l‘intera città sarebbe pulita».

 

Riepiloghiamo di seguito alcune pratiche sane scritte fin qui:

 

1.     Fotografare l‘indispensabile e come se avessimo solo 36 scatti in macchina

2.     Evitare di scattare a raffica

3.     Dedicarsi alla selezione delle foto prodotte per eliminare quelle inutili

4.     Postare poche foto e solo quelle più significative sui social caricandole in risoluzione più bassa, tipo 1000pixel il lato lungo

5.     Preferire gli hard disk ai dischetti o ai cloud per lo storage (archiviazione)

6.     Utilizzare la funzione di salvataggio “salva per WEB” di Photoshop prima di farle circolare sui social: serve a ridurre i dati delle foto senza che l‘occhio umano se ne accorga

7.     Evitare di inviare per la sola semplice visione, immagini superiori a 1 MB

8.     Inserire sul proprio sito solo le foto più significative e non album fotografici interi e con foto simili tra di loro

9.     Ottimizzare le foto per il sito WEB: il lato lungo a 1300pixel è più che sufficiente per la visione a monitor

 

 

Foto di copertina: Bethany Drouin da Pixabay 

23.02.2023 # 6217
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Marco Maraviglia //

Rossella Mutone espone “in Fede”, 29 fotografie bianconero all‘Art Garage

Tra sacro e profano, la religiosità di Napoli espressa attraverso una ricerca visiva dell‘autrice

Napoli è la città italiana con più chiese dopo Roma. È detta “la città delle mille chiese”.

Chiese medievali, rinascimentali, barocche, chiese sconsacrate, chiese chiuse, interi monasteri destinati ad attività ludico/sociali, c‘è persino la copia della Basilica di San Pietro del Vaticano… Ma quanta religiosità c‘è qui?

 

C‘è traccia di religiosità a Napoli visibile in ogni angolo del centro storico. Edicole sacre, piccole o grandi statue di Padre Pio innanzi ai bassi. San Gennaro è dipinto sui muri in tutte le salse: di fianco a Caravaggio, con la mascherina, in versione Superman o in versione da guerriero di Jorit.

Fedele, laica, prosaica, profana, superstiziosa, passionale, festaiola, la religiosità napoletana è una filosofia a sé. Perché contaminata da credenze popolari, danze e riti mistici.

Anche chi non è un cristiano praticante, o forse nemmeno credente, si infila nel portone della Chiesa del Gesù Nuovo per lasciare un obolo e farsi il segno della croce davanti la tomba di Giuseppe Moscati. Il medico Santo.

Chi non va a messa, chi non si confessa, non si perde comunque la liquefazione del sangue di San Gennaro. Perché a volte non si tratta di essere fedeli ma di far parte di quel sottile fil rouge che unisce sotto lo stesso cielo i più superstiziosi. Se il sangue non si scioglie, il napoletano come minimo tocca scaramanticamente la punta del “corniciello” che ha probabilmente in tasca.

E poi le capuzzelle di Napoli. I teschi della chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco o quelli del Cimitero delle Fontanelle alla Sanità. Da adottare, omaggiare con una monetina, un rosario o l‘icona di un santino. Tra grazia ricevuta, desideri di vincite al lotto e di buona salute.

 

È in questo contesto che Rossella Mutone indaga la religiosità di Napoli fotografando in solitudine e con discrezione attimi di intimità.

 

Ho cominciato a notare che le chiese con le loro luci e le loro ombre, i volti dei fedeli assorti a pregare non durante una messa ma in situazioni intime attiravano la mia attenzione. Sarà che amo entrare nei luoghi di culto quando non c‘è quasi nessuno perché mi sembra di sentire maggiormente la presenza e la vicinanza ad un‘entità superiore, sono cristiana ma non praticante alla ricerca di risposte.

 

È un lavoro di ricerca visiva iniziato nel 2018, interrotto causa pandemia e poi ripreso.

Immagini che rappresentano devozione per i santi, idolatria per simboli religiosi, una città che venera Maradona come un Dio, o adotta una capuzzella coltivando un amore mistico per l‘anima di uno sconosciuto.

E Rossella sviluppa questa ricerca su più percorsi le cui sezioni restituiscono l‘insieme: Riflessioni, Devozione, Simboli ed esoterismo, Idoli e credenze.

 

Fotografie con riflessi che fondono i confini del quotidiano con quelli religiosi in atmosfere che si sospendono in un tempo mentale senza tempo.

Devozione, dettagli, campi lunghi, presenze di luci divine. Persone che pregano. C‘è chi in raccoglimento religioso quasi sembra che si sia appisolato nel silenzio di una chiesa.

Ecco: silenzio. Il silenzio è l‘anima portante di queste fotografie. Dove già lo stesso silenzio che ci arriva osservandole, è qualcosa di mistico ed esoterico.

Non sono fotografie prese durante le messe. Sono talvolta scatti rubati. Un reportage sommesso tra esterni e interni.

Perché la religiosità non è posseduta dai confini di una chiesa. La si percepisce anche nelle strade. Tra edicole votive e altarini e murales per venerare Maradona.

Tra sacro e profano.

 

 

 

in Fede | Napoli ricerca fotografica di Rossella Mutone

Art Garage

Viale Bognar 21 Pozzuoli

Inaugurazione Sabato 4 marzo ore 18

Ingresso Libero.

Fino al 17 marzo 2023

Lun > Ven 16,30-20.00 Sabato e Domenica su appuntamento.

Nell‘ambito di FOTOARTinGARAGE VI edizione rassegna di fotografia coordinata da Gianni Biccari.

14.02.2023 # 6212
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Marco Maraviglia //

Valeria Sacchetti: “Journey to the lowlands, Fra la via Emilia e il West”

Un libro foto-narrante che documenta la vita quotidiana della bassa padana dopo il terremoto del 2012

Journey to the lowlands, Fra la via Emilia e il West è l‘ultimo libro di Valeria Sacchetti, fotografa che, dall‘inizio del suo interesse per la fotografia, indaga sugli aspetti sociali della gente determinati da eventi politici e naturali.

 

Valeria, nativa di Modena e trasferitasi a Carpi, si avvicinò alla fotografia consultando libri di grandi fotografi nelle biblioteche. E comprese che il mondo andava visto da vicino, non solo attraverso i libri.

Frequentò il suo primo corso di fotografia a Bologna dove imparò anche le tecniche di camera oscura.

 

Il viaggio è una cosa seria e non serve per raccontare com‘era buono il kebab che potevi mangiare in qualsiasi città del mondo. Valeria Sacchetti, nata negli anni ‘70, laureata in storia e insegnante di lettere, ha sempre viaggiato per approfondire l‘inglese e per realizzare servizi fotografici che raccontassero storie vere, a volte misconosciute ai più. Almeno non così dentro come invece raccontano le sue immagini. (Ri)costruendo una memoria destinata a volte a dissolversi nel tempo.

 

Storie che per lei nascono da relazioni, come quando nel 2000 partì per il Cile ed entrò in contatto con una ONG fondata da donne uscite dal carcere dopo la dittatura di Pinochet. Donne che aiutavano donne. Che intraprendevano un lavoro di sindacalizzazione e sensibilizzazione per far prendere coscienza dei propri diritti sul lavoro. Per tutte le lavoratrici: dalle donne che lavoravano in casa, a chi aveva piccole botteghe e quelle che lavoravano nei campi, a rischio per i pesticidi che nel frattempo erano già stati proibiti in altri paesi.

 

Ed è in Cile che realizza il suo primo lavoro, un reportage sugli indiani mapuche.

Ma Valeria Sacchetti ha un‘indole nomade. Le piace spostarsi, viaggiare. Per studio e per lavoro. La fotografia è per lei lo strumento che le consente di conoscere storie, documentarle e raccontarle. Vive lunghi periodi anche in Irlanda, a Napoli, Roma, a Bordeaux per l‘Erasmus, in Messico, Iraq.

Va tre volte in Bosnia dove partecipa e documenta la Marcia della morte di Srebrenica.

A Belgrado realizzò un servizio su un orfanatrofio che era in uno stato pietoso. I bambini non avevano nemmeno le lenzuola, le inservienti si sentivano giustificate dal loro esiguo guadagno prendendo parte degli aiuti che arrivavano in orfanatrofio. Fu un servizio che acquistò la Caritas e la cifra guadagnata le servì per andare a Parigi e frequentare un corso di fotografia di 6 mesi presso la Spéos. Ma a Parigi ci restò per un anno dove lavorò nella compagnia telefonica mentre aspettava la borsa di studio per andare in Messico. Altro viaggio, altre storie fotografiche narranti.

 

Tornata in Italia fece un lavoro, durato cinque anni, sul movimento partigiano di Modena e provincia. Andò a scovare partigiani ancora viventi ritraendoli e facendosi raccontare i loro ricordi. Scattò loro dei ritratti nei luoghi degli episodi raccontati dagli stessi soggetti. E nacque nel 2016 il libro Generazione resistente.


Valeria Sacchetti ha sempre lavorato principalmente con pellicola bianconero e dal 2010, passando al digitale, si è trovata altrettanto a suo agio. Durante un master nel 2017 a Roma entrò n contatto con il fotografo Giancarlo Ceraudo che le consigliò di portare le sue foto a colori in bianconero comprendendo che le foto di Valeria avevano più energia senza colore.

Adesso c‘è questo suo ultimo libro, Journey to the lowlands, Fra la via Emilia e il West che traccia un percorso foto-narrante, come nel suo stile, “coast to coast” della via Emilia. L‘antica strada romana che va da Piacenza a Rimini tagliando trasversalmente in due L‘Emilia Romagna, per intenderci.

Un lavoro durato sette anni. Realizzato in zone percorse da Valeria Sacchetti fin dalla sua infanzia, lì dove sono le sue radici. Una terra dove non c‘è solo mortadella, piadina e tortellini ma che fin dall‘antica Roma è abitata da gente con il culto del lavoro e dei rapporti umani vissuti in maniera gentile, gioviale, condivisa e con umiltà.

Perché capitò che nel maggio 2012 in Pianura Padana ci fu un terremoto che in tanti hanno dimenticato. Furono colpite zone rurali, fattorie, stalle e casali distrutti e la vita di molte persone dedite all‘agricoltura, agli allevamenti e persino industrie, subì danni non indifferenti.

L‘Emilia la rossa, un po‘ contadina, luoghi di campagna. Dove non esistono più le grandi famiglie allargate. L‘Emilia usurpata negli anni anche sotto l‘aspetto industriale e ambientale, subì anche questo affronto di Madre Natura. E Valeria iniziò il suo viaggio narrante, fra “la via Emilia e il West” con fotocamera al seguito.

 

Mi interessava mostrare anche i giovani che sono tornati in campagna. Famiglie che sono anche ibride con immigrazioni dal Sud. Il mio è più un viaggio onirico legato molto ai miei stati d‘animo.

 

Durante la lavorazione, Valeria Sacchetti ha ampliato la visione del suo progetto abbracciando anche tutta “la bassa”, una zona di pianura particolare posta sotto il livello del mare, attraversata da fiumi che tracimano durante il periodo invernale con estati afose e molto umide. Un luogo che le ha sempre ispirato le atmosfere western dei film con cieli sterminati e chilometri di terra piatta.

Il sottotitolo del libro è un tributo a Guccini, originario di queste zone, che ha pubblicato anche un album nel 1984 intitolato appunto: “Fra la Via Emilia e il West”.

Lavorato in varie stagioni dell‘anno. Ha iniziato ritraendo persone che già conosceva e poi allargando la narrazione a quelle incontrate durante le sue esplorazioni creando una trama unica‘ con dieci storie di vita quotidiana di alcune delle persone ritratte.

 

Realizzato grazie a un crowdfunding con Crowdbooks, 46 fotografie tra ritratti e foto attinenti ai paesaggi delle location trattate, 112 pagine al formato verticale 20,5x27 cm, stampa in bianco e nero in  bicromia, copertina rigida.

Disponibile nelle migliori librerie di catena e/o indipendenti oppure sul sito dell‘editore all‘indirizzo: cwbks.co/journey



08.02.2023 # 6207
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Marco Maraviglia //

Gli Enigmi di Lino Rusciano in mostra

Inaugurazione sabato 11 febbraio al FotoArt in Garage di Pozzuoli. Le foto tra Metafisica e Surrealismo.

Il comunicato stampa di questa mostra di Lino Rusciano che mi è arrivato, è di sole quattro righe. Ma che nella loro brevità, dicono tutto.

Perché non si necessitano di spiegazioni. La Metafisica alla quale spesso si ispira il fotografo, può essere simbolica, straniante, semplicemente una ricerca di bellezza compositiva dove l‘armonia tra volumi e luci sono il significato stesso delle sue immagini. Memorabili perché inspiegabili. Specialmente quando sono attraversate da tracce di Surrealismo dove la realtà è manipolata nella stessa realtà.

«Ma quella bambola stava proprio in quel punto?», chiesi una volta a Lino guardando una sua foto; mi rispose, «Ho manipolato, c‘era ma l‘ho spostata di qualche metro per inquadrarla nella scena che volevo riprendere». Perché la realtà fosse più reale. Un‘amplificazione del reale che rende il possibile surreale.

 

La ragione può darci la scienza, ma solo l‘irrazionale può darci l‘arte. Dicevano i surrealisti. Qui, nelle foto di Lino Rusciano c‘è un connubio tra Metafisica e Surrealismo.

In esposizione ci sono trenta paesaggi marini del litorale domitio che l‘autore ha ritratto ispirandosi agli enigmi di Giorgio de Chirico. Con l‘unica differenza che gli elementi enigmatici, un materasso in gommapiuma ripiegato, una ghiacciaia da bar dismessa in mezzo la spiaggia, sono lì. Ritratti in fotografia e non dipinti. Elementi di una scenografia creata dall‘incuria dell‘uomo.

Enigmi. Costruzioni fatiscenti, erose dalla salsedine del mare. Strutture balneari viste d‘inverno. E viene in mente quando un ufficiale nazista, vedendo Guernica di Picasso chiese «Avete fatto voi questo orrore Maestro?» e il buon Pablo rispose «No, lo avete fatto voi!».

Ma nell‘orrore umano Lino Rusciano vede bellezza. La estrae in giochi di armonia compositiva, equilibri geometrici, accentuando i chiaroscuri, le ombre, evidenzia con giochi di luce le zone dove andrebbe l‘occhio in percorsi visivi musicali, dosa la vividezza del colore, alcune immagini sono portate in high key.

Un controllo di postproduzione necessario per il suo stile estetico, ormai inconfondibile, che altrimenti gli costerebbe l‘impiego di light designer del cinema per raggiungere gli stessi effetti.

 

La bellezza è armonia, equilibrio e tutto ciò che ti emoziona, la puoi trovare in tutte le cose,

anche quelle più semplici. Fotografare è anche una continua ricerca di essa.

 

Gli Enigmi di Lino Rusciano non fanno il verso ai dipinti di de Chirico. Sono emulazioni, nell‘accezione migliore del termine, espressioni personali che portano alla consapevolezza che la fotografia può e dovrebbe essere arte.

 

Credo che non esista il confine tra arte e fotografia. Infatti, a me interessa ricercare l‘arte tramite il mezzo della fotografia. La sensibilità della percezione individuale rende personale larte di ciascuno, icerco di esprimere la mia ricercandola nel mondo, nello sguardo che l‘obiettivo mi restituisce.

 

Ma adesso basta parole. Gli enigmi non è detto che vadano sempre risolti. Sono lì. Si prova ad addentrarvisi, cercando un perché, una motivazione o essere semplicemente contemplati.

 

Chi è Lino Rusciano

Conseguita la maturità classica al Liceo Vittorio Emanuele di Napoli, studia un anno a medicina. Ma il suo destino era designato verso la fotografia.

Ha una grande passione per gli animali e il suo giardino è abitato da oltre venti gatti.

A otto anni ebbe in regalo tre apparecchi fotografici con i quali cominciò a fotografare.

Appassionato di Man Ray, Bill Brandt, Yves Tanguy, Giorgio de Chirico, Dalì e il Surrealismo che hanno segnato profondamente il suo percorso.

Ha esposto in personali e collettive in tutta Italia.

 

 

 

 

ENIGMI

Fotografie di Lino Rusciano

Inaugurazione: sabato 11 febbraio 2023 alle ore 17:30

Fotoart in Garage – Parco Bognar 21 Pozzuoli Napoli

Coordinamento artistico di Gianni Biccari

L‘esposizione resterà aperta dall‘11 al 24 febbraio con il seguente orario:

tutti i giorni 16.30-20.00 (domenica chiuso)

Ingresso libero

06.02.2023 # 6204
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Marco Maraviglia //

Dialogue, Nella Tarantino e Francesco Tadini in mostra alla Casa Museo Spazio Tadini

Fotografie emozionali, contaminazioni artistiche, i protagonisti sono chi le osserva in un dialogo con l‘inconscio


Ph. Francesco Tadini (Looks - Sguardi)


Esistono fabbricatori di sogni? Certo, fanno parte di quella schiera di visionari del mondo artistico e creativo. Tra questi vi sono alcuni fotografi.

Cosa mostra una fotografia? Sogni o realtà? Una realtà ripresa dal fotografo o ciò che percepisce nell‘attimo dello scatto? Ma la realtà che mostra una fotografia è pura, cruda e nuda?

In effetti mostra solo un attimo di ciò che il fotografo ha innanzi a sé ma non il contesto in cui si trova. Perché tutto ciò che è lateralmente o dietro l‘inquadratura non si vede. Si può presumere ma non abbiamo il potere di ricostruire tutto ciò che è al di fuori dell‘inquadratura.

Un bravo fotografo riesce a far percepire anche ciò che ha “visto” emozionalmente in una foto. Anche senza particolari post-produzioni. Ma il fotografo che ruolo ha quando usa un dispositivo fotografico? Deve mostrare ciò che c‘è o ciò che sente? Lasciare l‘intuizione, l‘esplorazione nella lettura di una foto all‘osservatore o raccontare anche usando artifici? E quelle finzioni nella fotografia, fin dove possono spingersi? Finzioni narcisistiche o espressionistiche?

Se la didascalia di un‘immagine è lunga, è probabile che sia meglio che esista un solo testo scritto. Le foto possono raccontare in altro modo. Se si può fare a meno di una didascalia molto descrittiva è perché la foto basta da sé. A volte.

Esistono immagini emozionali che non necessiterebbero nemmeno di un titolo. Icone che da sole sono come emoticon che sanciscono uno spettro più o meno limitato delle emozioni.

A volte per generarle non è sufficiente un semplice scatto. A volte è possibile crearle solo disegnando un‘illustrazione con tavoletta grafica o anche con pastelli, chine, acquerelli e carboncini. Negli ultimi mesi un‘altra opportunità è l‘AI, l‘intelligenza artificiale: immagini generate tramite software che interfaccia testi dell‘autore con banche di immagini algoritmizzate; a volte l‘autore realizza “artigianalmente” più o meno complessi fotomontaggi. Altre volte è il solo modo di riprendere che può generare come risultato un impatto emotivo.

Ph. Nella Tarantino


Nella Tarantino e Francesco Tadini producono immagini che non sono fotografie in senso stretto. Fabbricano visioni oniriche. Tratte dalla realtà.

Tarantino tende a vedere oltre lo scatto fotografico di cui esalta i sapori attraverso chiaroscuri, mossi, limbi, si vede non si vede, i less is more, grana, equilibrio compositivo dei volumi, tipico di chi è architetto come lei lo è… Immagini teatralizzate ma non di teatro. Sospese in un tempo senza tempo, in spazi indefiniti. Dove sono state prese lo decide l‘osservatore perché è a lui che si lascia la possibilità immaginativa per poter percorrere un viaggio mentale associando il proprio background esperienziale all‘osservazione.

 

Francesco Tadini è di formazione artistica, figlio del pittore e scrittore Emilio.

 

Sono cresciuto ascoltando e vedendo mio padre dialogare con pittori, scrittori, giornalisti, filosofi e mi sono reso conto che l‘arte non può prescindere dal confronto.

 

Nelle immagini di Tadini si avvertono note di de Chirico, dell‘Impressionismo e altre contaminazioni artistiche. Note rivisitate e catapultate nel contemporaneo, in un neo-surrealismo fotografico che, anche in questo caso, lasciano all‘osservatore la facoltà di immergersi in ambienti immaginifici senza tempo, non databili.

Tadini scatta con tempi lunghi. Muovendosi lui, durante la posa “B”, muovendo la fotocamera, affinché i soggetti inquadrati restituiscano un dinamismo che ricorda il Futurismo e che spingono l‘osservatore ad esplorare con più attenzione le sue immagini in un gioco di riconoscibilità. E, quando le sue foto sono a colori, i movimenti sinuosi, circolari, ondulanti generati come se avesse una steadicam tra le mani, divengono esplosioni di colore. Una fuga dal buio e dalle paure, attraverso equilibrate pennellate di luce.

 

Ci sono immagini sulle quali l‘occhio si posa oltre i 5”. Alcune di queste restano impresse nella memoria più a lungo tra tante altre ridondanti che si perdono in rete.

Queste di Nella Tarantino e Francesco Tadini si ricordano. Dialogue, entrambi gli autori stimolano un dialogo tra le immagini e l‘inconscio dell‘osservatore.

 

 

 

La mostra è ospitata dalla Casa Museo Spazio Tadini, nato come luogo espositivo e di archivio per arti figurative contemporanee.

Nel corso dell‘inaugurazione ci sarà la presentazione del libro We always return di Nella Tarantino, con Federicapaola Capecchi e Antonio M. Cuono.

Libro recentemente pubblicato da EBS Print.

 

 

 

Dialogue

Nella Tarantino e Francesco Tadini

A cura di Federicapaola Capecchi

Dall‘11 febbraio al 5 marzo 2023

Inaugurazione 11 febbraio ore 18.00

Casa Museo Spazio Tadini

Via Niccolò Jommelli, 24

Milano (MM Loreto e Piola)

 

Apertura senza prenotazione venerdì e sabato dalle 15.30 alle 19.30

Per prenotazioni in altri giorni e fasce orarie melina@spaziotadini.com – visite guidate al museo 10,00 euro

Per contatti stampa Melina Scalise cell. 3664584532


Ph. Nella Tarantino


Foto di copertina: Ligeia, di Francesco Tadini

23.01.2023 # 6200
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Marco Maraviglia //

Fotografia artistica Pasquale e Achille Esposito. Un libro per una mostra. Una mostra per un libro

Napoli fin de siècle. Una Napoli rétro alla Certosa e Museo di San Martino

Fino al 19 marzo sarà possibile riscoprire la Napoli di fine ‘800 nella mostra fotografica Napoli ‘fin de siécle‘. Fotografia Artistica Pasquale e Achille Esposito, che raccoglie ed espone in tre sezioni tematiche le opere di Pasquale e Achille Esposito, protagonisti, alla fine dell‘Ottocento, di un‘importante stagione della grande tradizione della fotografia napoletana grazie alla produzione del proprio atelier fotografico commerciale.

 

La mostra in realtà è un‘ampia sintesi del bellissimo libro Napoli ‘fin de siécle‘. Fotografia Artistica Pasquale e Achille Esposito. Un volume che, sfogliandolo e anche il solo leggerne pagine casuali, rimanda a sensazioni extra-sensoriali, coinvolgendo in una macchina del tempo che ci accompagna alla partecipazione di una vita realmente vissuta a Napoli e dintorni. Perché vere sono le immagini con tutta la mimica tipica partenopea: pochissime in posa, poche realizzate in studio. Quasi tutte mostrano una realtà dinamica dove si evincono atmosfere quotidiane ambientate nel paesaggio urbano.

Perché le fotocamere erano più maneggevoli e leggere e i materiali fotosensibili, già dalla fne dell‘800, erano più performanti e non c‘era più bisogno di prendere fotografie con tempi di esposizione lunghi. L‘era degli atelier fotografici con le sedie ferma-testa, volgeva al termine.

Ed era la novità dell‘epoca. Si potrebbe dire che la street-photography nacque proprio con Pasquale e Achille Esposito.

 

La mostra è allestita nella spezieria della Certosa e Museo di San  Martino. L‘idea nasce per valorizzare un fondo fotografico presente nella fototeca storica del museo e segue quella su Alphonse Bernoud, allestita nello stesso spazio nel 2018.

C‘è da dire che il primo libro sulla storia di Napoli attraverso la fotografia, risale al 1981: Immagine e città di Napoli di Mariantonietta Picone. Napoli ‘fin de siécle‘ nasce dal desiderio dei curatori di voler implementare, far crescere la documentazione bibliografica, restando in tema.

 

Di Pasquale Esposito e Achille (il figlio) era nota la loro attività professionale a Napoli ma nulla si conosceva della loro biografia. Molte foto che realizzarono riportano la dicitura “fotografia artistica” oltre al loro nome. Erano particolarmente operativi nel campo della riproduzione d‘arte tanto da definirsi “i fotografi del Museo Nazionale” (oggi MANN).

La mostra si sviluppa su tre filoni fotografici: scene di strada e costumi popolari, vedute (di Napoli e dintorni come Capri, Amalfi, Sorrento, Pompei, Pozzuoli) e, come già scritto, documentazione di opere d‘arte.

 

Si evince dalle stampe all‘albumina appartenenti a vari fondi fotografici pubblici e privati, che Pasquale Esposito (1842-1917) è stato il più attivo in termini di produzione. Anche perché il figlio Achille visse solo 33 anni (1868-1901).

Si sapeva solo dell‘esistenza del lavoro prodotto dagli Esposito, padre e figlio, alcune immagini della loro produzione sono state riconosciute dagli stessi curatori andando a scavare fototeche pubbliche e fondi di collezionisti privati. È un lavoro di ricerca che non si improvvisa. Si fanno verifiche incrociate con gli stili estetici dei fotografi dello stesso periodo. Si consultano archivi, pubblicazioni e testimonianze giornalistiche dell‘epoca.

Infatti, un punto di partenza illuminante che ha dato la possibilità di tracciare alcune notizie biografiche di Pasquale e Achille, è stato una nota presente in un album del saggista e illustratore Gennaro D‘Amato: Raccolta di Fotografie di NAPOLI del 1800. Album che fu donato da D‘Amato alla Biblioteca Nazionale e giunto poi nella Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria. E questo album è esposto in una teca aperto proprio alla pagina della “nota illuminante”.

 

Non vi racconto cosa è scritto in questa nota perché un po‘ di curiosità per visitare questa mostra voglio lasciarvela.

Posso però dire che grazie a quella nota i curatori hanno iniziato a fare ricerche in vari archivi storici tra cui quelli dell‘Accademia di Belle Arti di Napoli, visto che si citava Achille Esposito come pittore.

 

Se pur siano stati i pionieri della fotografia di strada, il loro vedutismo calcava gli standard dell‘epoca. Ma ebbero la fortuna di attraversare un periodo tecnologico in cui si perfezionavano i procedimenti fotomeccanici per la stampa e la nascita delle prime cartoline turistiche agli inizi del ‘900. Anche a colori, preventivamente colorate a mano.

E con le cartoline inizia la produzione di riviste e libri destinati al turismo. Interessante vedere in esposizione una guida turistica di Pompei in inglese dove all‘interno vi sono venti stampe fotografiche originali all‘albumina. Ma purtroppo non si sa quante copie ne furono prodotte.

In quel periodo si determinò un po‘ la fine del Grand Tour. Non più gouache ma fotografie.

La nascita della fotografia fu inizialmente una dannazione per i pittori, ma poi ci si rese conto che poteva essere un mezzo utile per riprodurre scene senza dover necessariamente stare sul posto. O quando serviva a un incisore una scena da riprodurre fotomeccanicamente e riadattava la fotografia secondo il proprio stile compositivo: in esposizione una pagina di L‘Illustration dove è presente l‘incisione a stampa di una visita sul Vesuvio tratta da una foto degli Esposito.

 

In fondo, in uno spazio buio della spezieria, poggiate su un cubo luminoso realizzato dall‘artista Michele Iodice, vi sono quarantanove lastre fotografiche dell‘Archivio Parisio. Da osservare, attentamente, codificare mentalmente in positivo e scoprire infiniti dettagli affascinanti come la nodosa staccionata della villa Krupp che affaccia sui Faraglioni di Capri, il carattere dell‘insegna dell‘Hotel Vittoria che è lo stesso di oggi e i “com‘era all‘epoca rispetto ad oggi”.

Tante le chicche e sorprese. In mostra molti spunti che inducono a riflessioni, curiosità da approfondire, dettagli di una Napoli nel pieno della sua Belle Époque tra popolo e borghesia, tra divulgazione archeologica e turistica, lavori in strada, tra passeggiate sul Vesuvio e scugnizzi a Mergellina che ricordano il Pescatorello di Vincenzo Gemito.

Tanta roba. Non solo un tuffo nel passato, ma proprio una profonda immersione.

 

Insomma, per appassionati della Napoli rétro, per i filologi della cultura urbanistica e popolare, per i fotografi amanti dell‘albumina o per gli street-photographer, per chi si occupa di comunicazione turistica… ecco a voi una bella operazione su Napoli dalle mille e una curiosità. Una sola raccomandazione: non guardate solo le foto, si suggerisce di leggere i pannelli descrittivi che comunque sono una sintesi del preziosissimo libro.

 

Si ringrazia Fabio Speranza per il tempo dedicatomi il 19 gennaio durante una chiacchierata allinterno della spezieria per raccontarmi la mostra.

 

Foto di copertina: Pasquale e Achille Esposito, Calessi per il trasporto passeggeri presso Porta Capuana, Napoli, collezione Giulio Amodio

 

Napoli “fin de siécle”. Fotografia Artistica Pasquale e Achille Esposito

A cura di Giovanni Fanelli e Fabio Speranza

Certosa e Museo di San Martino – Sala della Spezieria

Dal 17 dicembre 2022 al 19 marzo 2023

Orari:

(escluso mercoledì) 8.30 – 17.00; chiusura biglietteria ore 16.00

 

Il libro è acquistabile nelle principali librerie e anche alla biglietteria del museo.

 

Info:

Ufficio Promozione, Comunicazione e Stampa – Direzione regionale Musei Campania +39 081 2294478 - drm-cam.comunicazione@cultura.gov.it

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