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04.05.2022 # 6042
Francesca Della Toffola espone all’Istituto Italiano di Fotografia con Accerchiati Incanti, come Ofelia

Marco Maraviglia //

Francesca Della Toffola espone all’Istituto Italiano di Fotografia con Accerchiati Incanti, come Ofelia

Autoritratti e trasparenze, tra corpo e natura, alla ricerca di una femminilità intima e onirica

Chi è Francesca Della Toffola

Nata a Montebelluna nel 1973. Laureata in Lettere moderne con una tesi su Wim Wenders, si specializza presso l’Istituto Italiano di Fotografia di Milano. Nel 2009 pubblica il libro fotografico The black line series e nel 2018 Accerchiati incanti, grazie al quale riceve il Premio Hemingway 2018. Nel 2021 pubblica il diario della Residenza d’Artista a Villa Greppi: Apparizioni per testardi picchi. É curatrice di “Trevignano Fotografia” giunta alla XII edizione.

Tra le esposizioni personali: SpazioGalleria Heart, Vimercate; Spazio Ramedello, Ceggia; Terrazza Mare, Lignano Sabbiadoro; Galleria di Palazzo Ducale, Pavullo nel Frignano; Mia Fair 2015, Milano; Galleria Melesi, Lecco. Espone in diverse collettive in tutta Italia.

 

Come Ofelia

Amori impossibili. Ingannevoli. Sleali. Non corrisposti. Amori che cambiano per forza di cose. Amori che colpiscono l’umore. Amori struggenti, di quelli malati, che non costruiscono ma ti annullano. Sei corpo e mente ma inizi a scomparire. Ti annulli. Vai fuori di testa. Perdi il contatto con te stessa. Non vedi un futuro. Tutto intorno ti travolge prendendo possesso di te. Oppure vivi l’abbandono come un’esperienza che ti tempra. Ti innesca meccanismi razionali. Alzando la barricata della diffidenza. Issando muri invisibili di una frontiera al di qua della quale sei tu stessa invisibile. Smorzando femminilità e seduzione.

Ma Ofelia, di William Shakespeare, impazzisce. Un amore reciproco con Amleto interrotto però da un ripensamento di lui. Per proteggerla dalle meschine trame reali. E incoscientemente la sua vita terminò cadendo accidentalmente nel fiume.

 

Le sue vesti, gonfiandosi sull'acqua,
l'han sostenuta per un poco a galla,
nel mentre ch'ella, come una sirena,
cantava spunti d'antiche canzoni,
come incosciente della sua sciagura
o come una creatura d'altro regno
e familiare con quell'elemento.
Ma non per molto, perché le sue vesti
appesantite dall'acqua assorbita,
trascinaron la misera dal letto
del suo canto a una fangosa morte.

- da Ofelia; W. Shakespeare

 

Solo uno spunto per sandwich onirici

La letteratura è un gran serbatoio di spunti e idee per sviluppare progetti in altri campi dell’arte.

Ofelia, per Francesca Della Toffola, non è altro che uno degli ingredienti del suo progetto Accerchiati incanti. Qui abbiamo immagini che vanno oltre l’amore contorto perché è un universo femminile più ampio che parla. Contenute in un cerchio che riconduce alla forma perfetta, quella della terra o della maternità o anche della visione circolare dell’occhio umano.

 

Non ci sono limiti, spigoli, orizzonti che dilatano, ma un cerchio che gira su se stesso che impone una visione penetrante che vuole oltrepassare la superficie. 

 

Una tecnica di cui Art Kane ne fu un pioniere, era quella del sandwich. Consisteva nella sovrapposizione di due o più diapositive che restituivano magiche e suggestive visioni irreali.

Le immagini di Francesca Della Toffola sono sandwich digitali, sovrapposizioni di corpo e spazi. Autoritratti che entrano in simbiosi con l’ambiente circostante. Una fusione con la natura che abbraccia e avvolge con “fili d’erba che germinano dalla pelle” e che a tratti risucchia del tutto parti di quel corpo in trasparenze che lasciano percepire comunque la loro presenza. Ciò che non era possibile realizzare con la tecnica del sandwich analogico.

Sono immagini, queste di Francesca Della Toffola, che richiamano l’iconografia di Ofelia la cui apoteosi e punto di partenza per molti altri artisti contemporanei, è rappresentata dal famoso dipinto del 1852 di John Everett.

Una ricerca iniziata nel 2010. Introspettiva. Con una chiave di lettura connessa tra la donna e la sua proiezione nell’immaginario. L’entità donna che c’è, esiste, in armonia con quel mondo bistrattato spesso dall’uomo perché con fisiologie diverse. Perché lui non vive la maternità. Non conosce il contatto con la vita che gli cresce dentro.

Francesca realizza il suo lavoro Accerchiati incanti, con i suoi autoritratti, senza narcisismo, senza desiderio di esibizione. Semplicemente per esplorare l’intimo di se stessa e quindi l’universo femminile, attraverso la natura.

 

L’autoritratto mi permette di entrare, di dialogare con gli spazi, di giocare con il tempo, di avere uno sguardo doppio. Dentro e fuori l’immagine.

 


 

Accerchiati incanti. Come Ofelia

di Francesca Della Toffola

Istituto Italiano di Fotografia

inserita all’interno della rassegna “Ibridazioni. Inedite contaminazioni di linguaggi visivi”, a cura di Sanni Agostinelli

Presso la IIFWALL (via Enrico Caviglia 3, Milano).

 

Dall’11 maggio al 7 giugno con apertura dal lunedì al venerdì,

orario 9:30-13:00 e 14:00-18:30, il sabato orario 10:00-13:00 e 14:00-17:00.

Info: https://www.istitutoitalianodifotografia.it/eventi/mostra-accerchiati-incanti-come-ofelia-di-francesca-della-toffola/

10.05.2022 # 6051
Francesca Della Toffola espone all’Istituto Italiano di Fotografia con Accerchiati Incanti, come Ofelia

Marco Maraviglia //

Guido Giannini, un arzillo fotografo 92enne in mostra

Poesia e ironia di un osservatore. La street photography ante litteram. Visioni paradossali e irrazionali di una realtà sfuggente

Chi è Guido Giannini

Classe 1930. Fisico asciutto. Capelli lisci, folti e bianchi. Un bastone nodoso che sembra usare solo per darsi un tono da vecchietto o forse per esigere il dovuto rispetto. Perché sale le scale e si alza da una sedia in maniera scattante. Orecchie lunghe che denotano una lunga vita. Guido Giannini si incontra spesso per Napoli, mentre macina chilometri a piedi perché ha sempre qualcosa da fare. Nella metro non si siede. Parlantina veloce. Una lucidità mentale da fare invidia a tanti. Occhiali che non nascondono gli occhi vispi e scrutatori come quelli di un eterno bambino curioso di quel che gli accade intorno.

«Cerchi qualcosa? Hai bisogno di qualcosa?», mi chiede mentre osservo le sue foto. Eppure ero convinto che stesse guardando in altra direzione. Deformazione professionale. Un attento fotografo è come un gatto: guarda avanti a sé ma ha il perfetto controllo di quello che gli accade intorno. E con grande generosità non si risparmia nel raccontare aneddoti ed esperienze vissute mentre mostra i suoi libri pubblicati. A volte sembra scontroso ma è, semplicemente, sinceramente diretto. Senza sovrastrutture. Senza formalismi ipocriti. Essenziale.

Guido Giannini è l’uomo del 50 mm, l’obiettivo preferito da Bresson. La focale più prossima a quella del campo visivo dell’occhio umano. Non ha mai usato zoom o grandangoli. Il suo modo di raccontare fotograficamente è sempre stato quello di essere vicino all’azione. Girare intorno al soggetto, avvicinandosi, allontanandosi. Rendendosi invisibile e veloce col suo colpo d’occhio che è la base dei suoi scatti.

 

"Se le tue foto non sono buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino”

- Robert Capa

 

Dal comunicato stampa

Guido Giannini nizia a fotografare negli anni ‘50. La rivista Il Mondo pubblica alcune sue foto tra il 1961 e il 1962: «La mia prima foto – racconta - venne pubblicata da Il Mondo diretto da Mario Pannunzio, era il 19 dicembre del 1961. Avevo già trentuno anni. Era l'immagine di una donna anziana che suonava il violino davanti alle vetrine della Rinascente di Napoli. Era vestita tutta di nero, con un borsone vuoto che le pendeva dal braccio e sosteneva il violino».

Per circa quindici anni si dedica ad altre attività. Riprende a fotografare nel 1976 collaborando con varie testate: il Manifesto, la Repubblica, l’Unità, Qui Touring ed altre testate locali e nazionali. È stato redattore fotografico del periodico NdR.

Giannini, oggi 92enne, ha tenuto numerose mostre personali in tutta Italia e all’estero. Le sue opere sono state esposte da Roma a Milano fino alla Cina. Tra i personaggi noti fotografati da Giannini il premio Strega Raffaele La Capria, Fabrizia Ramondino, Bruno Munari e Goffredo Fofi.

 

 

L’ironia del mondo fotografico di Giannini

Ma che tipo di fotografo è Guido Giannini?

Un osservatore. Un registratore di centesimi di secondo della varia umanità. Un’umanità con le sue manie, contraddizioni e fobie. Emozioni e affetti. Che normalmente ci sfugge nei suoi sottili toni irrazionali ma che Giannini riesce a cogliere.

Un folklore totale che abbraccia istanti in maniera minimalista ma che, messi insieme, restituiscono l’atmosfera di un mondo pulsante, vivo. Perché non sono immagini tratte dai film di Luis Buñuel o di Fellini ma è tutto vero.

Con fotografie che, dagli anni ’50, attraversano e illustrano la trasformazione sociale e urbanistica di Napoli.

E quell’occhio curioso e vispo di Giannini coglie spesso l’ironia della scena. Un clochard che passa davanti a una vetrina di abbigliamento chic con l’insegna “Protagonista”. Un ambulante seduto chino sulla sua fisarmonica e da un manifesto un volto opulento e sardonico lo osserva mentre addenta una coscia di pollo. Un cane seduto davanti a un furgone aperto che osserva un mezzo pezzo di manzo appeso all’interno. Un signore seduto su una sedia con una gabbia di uccellini posata sulle ginocchia. Signora con ventaglio ferma al sole (ma perché non si è messa all’ombra? Vien da chiedersi).

Immagini paradossali che fan sorridere e riflettere allo stesso tempo. O che inteneriscono come quella della coppia abbracciata e che si bacia, poggiata su un’auto. Una delle foto più condivise e… rubate sui social.

 

Attraverso le sue fotografie si fa esperienza di sociologia, di storia, di cronaca, di urbanistica e di tante altre cose, tutte preziose, ma l'esperienza rivelatrice e definitiva è quella umana.

- Mario Martone

 

Oggi Guido Giannini verrebbe appellato come street photographer. Ma Guido non apprezza etichette. Non esulta nemmeno se lo si definisce Maestro. È l’umiltà dei grandi.

 

 

 

TERRA E MARE - OMAGGIO A GUIDO GIANNINI
a cura di Luciano Ferrara con la collaborazione di Zelda Giannini

Dal 6 al 20 maggio 2022

Magazzini Fotografici
Via San Giovanni in porta, 32 – 80139 Napoli

Orari di apertura
Mercoledì h16:00/h 20:00
Giovedì, venerdì e sabato
h11:00/h13:30 - h14:30/h20:00
Domenica h11:00/h14:00

PER INFORMAZIONI:
info@magazzinifotografici.it

06.05.2022 # 6047
Francesca Della Toffola espone all’Istituto Italiano di Fotografia con Accerchiati Incanti, come Ofelia

Marco Maraviglia //

Dia logo: bipersonale di Ljdia Musso e Renata Petti

Dialogo e attraversamento della psiche femminile e della rappresentazione esteriore del sentirsi donna tra due generazioni

Si vede e non si vede. Mi mostro ma non mi rivelo. Non c’è trucco non c’è inganno. È solo una realtà visibile a tutti la cui lettura non è comprensibile per tutti. A meno che…

Inconscio e subconscio dell’universo femminile. Aprire con cautela. Non c’è libretto di istruzioni che tenga. Non ci sono regole stereotipate. Per ascoltare nell’anima quegli esseri fisiologicamente diversi dagli uomini, le donne, occorre forse una mente incondizionata, sciogliere i sensi, eliminare i bias cognitivi, mettere da parte il proprio ego ed esplorare. Ogni volta come se ci trovassimo in un territorio nuovo e nudo. Dove non sappiamo dov’è l’interruttore per la luce, un ruscello per bere, un giaciglio dove trascorrer la notte. Senza kit di sopravvivenza. Senza apriscatole perché non c’è alcuna scatola da aprire ma si tratta solo di cogliere sensi, pensieri, percezioni.

Soltanto allora, forse, potremmo sentirci rigenerati da quegli “involucri” femminili come in Cocoon, l‘energia dell’universo, dove alcuni vecchietti divennero arzilli grazie a dei boccioli dall’apparenza amorfi.

 

Più o meno potrebbe essere questa una chiave di lettura delle immagini in mostra di Ljdia Musso e Renata Petti.

Dia logo. Un titolo che aprirebbe a ulteriori riflessioni.

Dia: “prefisso di molte parole composte, derivate dal greco o formate modernamente nella terminologia scientifica, nelle quali significa per lo più «attraverso» o «per mezzo di», oppure indica separazione, diversità” (Treccani).

Come la possibilità di conoscere aspetti paralleli di due lavori fotografici ma con contenuti diversi.

Un dialogo tra i due lavori presentati.

Oppure “dia” inteso come il diminutivo di diapositiva. Una trasparenza attraverso la quale è possibile vedere l’immagine nonostante possa passarci la luce.

Logo. Una parola che ricorda il marchio, il logotipo, un simbolo grafico che caratterizza in un solo segno il brand di un’azienda, un prodotto, rendendoli riconoscibili.

E infatti le fotografie di Ljdia Musso e Renata Petti sono come contraddistinte da uno stile, da un’estetica che non lascia spazio al confondersi con altre immagini. Perché esse stesse sono logo.

Quelle di Ljdia sono in high key, luminose, intrise di luce vaporosa e, per di più, tutte come firmate perché si tratta di autoritratti. Il volto diventa firma, marchio, logo.

Quelle di Renata, anche autoritratti, tendono al low key, neri densi, mossi realizzati con lunghe esposizioni e talvolta con sovrapposizioni di nuvole, mare. Il corpo è privato della sua forma, si sdoppia, quasi a rappresentare due entità che si cercano reciprocamente tra corpo stesso e il suo lato spirituale.

 

 

 

Dia logo

Ljdia Musso e Renata Petti


a cura di Gianni Nappa


5 maggio – 5 giugno 2022

Spazio N° 7 Caserta di Luigi Ambrosio

Via Vico n° 7 – Caserta

Info: 320.967.63.56     

E-mail: luigiambrosio336@gmail.com

29.04.2022 # 6038
Francesca Della Toffola espone all’Istituto Italiano di Fotografia con Accerchiati Incanti, come Ofelia

Marco Maraviglia //

Chiara Negrello in mostra allo storico Caffè Pedrocchi di Padova con Like the Tide

Un agrodolce racconto fotografico alla foce del Po di donne contadine del mare

Chi è Chiara Negrello

Giovane fotografa freelance nata a Rovigo. Attualmente vive a Firenze. Laureata in fotografia alla LABA (Accademia Liberale di Belle Arti) di Firenze nel 2017.

Ha frequentato il Documentary Practice and Visual Journalism Program alla scuola ICP di New York supportata dalla borsa di studio assegnata dalla Reuters, la più grande agenzia fotogiornalistica internazionale. È membro di Woman Photograph” e selezionata nel 2021 per lEddie Adams Workshop XXXIV. Ha pubblicato i suoi lavori su testate nazionali e internazionali come The New York Times, D la Repubblica, MarieClaire, Focus e altri.

 

I suoi lavori sono principalmente basati sulle relazioni umane e sociali influenzate dall’impatto ambientale e decisioni economico-politiche tra cui la contaminazione dell'acqua da Pfas nella regione Veneto pubblicato su Der Spiegel nel marzo 2021.

Ha fotografato migranti in Giordania, Medio Oriente e a Bihac, al confine tra Bosnia e Croazia.

Nel 2019 in Ecuador fotografa donne riciclatrici a Quito: Recicladoras, donne che recuperano materiali e oggetti dai rifiuti per rivenderlo a privati.

Documenta le restrizioni per i venezuelani riguardo i visti in Ecuador e le messe in streaming durante il primo lockdown in Italia a causa del Covid19 pubblicando su National Geographic.

Solo per sintetizzare.


 

Like the Tide

È l’alba. Inverno. Valle del Po.

Nella luce bluastra e nebbiosa del primo mattino si vedono le luci accese di alcune finestre di un paesino in cui non è ancora iniziata la vita del giorno. Ci son donne che si stanno preparando per andare a lavorare. Probabilmente lasciano pronta sul tavolo la colazione per il marito e i figli. Prima di uscire e incamminarsi in quell’aria bagnata, tipica della Pianura Padana.

 

Sul finire degli anni ’80 andò in crisi il settore tessile e molte donne persero il lavoro. Ma erano donne. Di quelle che non si piangono addosso. E si reinventarono. Già temprate dai turni massacranti delle fabbriche tessili entrarono in un nuovo percorso. Forse più ostico, ma comunque duro.

In quegli anni, nella valle del fiume, furono seminate vongole e molte donne dalle macchine tessili passarono alla pesca delle vongole.

Un punto di rottura col passato. Un punto di arrivo che fu un nuovo punto di partenza che risollevò l’economia del luogo. Fino allora considerato un lavoro prettamente maschile, oggi quasi la metà dei pescatori è donna.

Anche d’inverno entrano nelle acque gelide del Po armate di rasca per rastrellare o scavare con le mani nelle secche e raccogliere i molluschi. Al confine tra il fiume e il mare. Tra il dolce e il salato. Come la loro vita agrodolce.

Contadine del mare. Donne coraggiose che non temono di sporcarsi le mani e affaticare la schiena di fronte a un lavoro duro condiviso con la reciproca solidarietà delle commilitone. Che quando rientrano nelle case riacquisiscono il loro ruolo materno isolando, dalla propria famiglia, stanchezza e sofferenza. Un tocco di profumo al collo. Premure per i figli. Una sistemata alla casa. Una tovaglia da sbattere e ripiegare dopo la cena.

E domani è un altro giorno. Sveglia all’alba. Con l’orgoglio negli occhi e la bellezza nell’anima. Nuovamente nella nebbia.

Chiara Negrello con poetica delicatezza, senza invadenza, racconta queste storie attraverso le sue immagini di Like the Tide. Storie intorno a noi. Non c‘è bisogno di andar lontano per trovare qualcosa da narrare.

Like the Side, come la marea che sale e scende, e anche la fatica è mostrata in chiave morbida, gli sguardi dei ritratti infondono forza e amore per il lavoro, le rasche per la pesca creano nuvole di sabbia sotto il pelo dell’acqua che tutto nascondono e tutto rivelano.

 

 

 

Like the Tide (Come la marea)

EFFE22 - Rassegna Annuale di Fotografia d'Autore

Dal 23 marzo al 18 maggio

Presso la sala verde dello Storico Caffè Pedrocchi

Via VIII Febbraio, 15 - Padova

Ufficio Stampa: Francesca Minucci, Tel. 3403800320 | Email f22.effeven@due@gmail.com

27.04.2022 # 6037
Francesca Della Toffola espone all’Istituto Italiano di Fotografia con Accerchiati Incanti, come Ofelia

Marco Maraviglia //

Presenze nelle assenze, Peppe e Luca Esposito espongono al Fotoart in Garage

Quel sottile filo che lega padre e figlio attraverso la fotografia. Due visioni parallele che si implementano in maniera autonoma

Esiste il vuoto? Si vede? Ma se si vede significa che c’è qualcosa che lo definisce o che lo riempie. O perlomeno ne offre dei confini.

Il vuoto diventa pieno. Il pieno può essere vuoto.

Per comprendere il concetto di vuoto e pieno, basti ricordare alcune opere di Anish Kapoor che annullano la realtà intorno rendendola impalpabile. Presenze nelle assenze o assenze nelle presenze, se preferiamo. Oggetti che si mimetizzano nell’ambiente circostante annullandosi.

Involucro e contenuto persistono, esistono, ma si annullano.

Le presenzassenze di Franco Fontana sono di ben altro senso. Ombre umane o di altri elementi. Che interagiscono con i luoghi. Assenze che riempiono gli spazi stabilendone un rapporto di osmosi. Senza l’uno o l’altra non esisterebbe l’immagine. Non ne avrebbe un senso.

 

Le Presenze nelle Assenze di Peppe e Luca Esposito credo che viaggino su un filo invisibile, impercettibile, da ricercare non tanto nelle immagini proposte in questa mostra, ma nel rapporto di padre e figlio che li lega.

Credo che uno dei desideri di un padre ambizioso, sia quello che il figlio segua le sue stesse orme. Trasferire le proprie conoscenze per perpetuarle. Anche se verso strade diverse. Lo stesso mezzo, in questo caso la fotografia, ma usato per percorrere un filone visivo diverso. Un’altra ricerca per approdare altrove. Nel caso di Luca, verso il cinema. Dove l’assenza è la finzione cinematografica. La presenza sono gli attori che danno corpo a una storia.

Le ben note immagini di bambole di Peppe Esposito, che non vedremo in questa mostra, lasciano il posto ad altre presenze reali e animate degli attori di un cast cinematografico. Dall’assenza umana che vuole rendere una presenza emotiva ricreandola ex novo con sguardi vitrei, alla presenza umana reale che non ha bisogno di artifici. Perché l’artificio è il set cinematografico.

Spazi vuoti in cui il rapporto delle dimensioni è riportato dalla presenza dell’elemento umano. Che sia un uomo, un’auto o delle bottiglie, non importa.

E forse nelle immagini di Peppe e Luca Esposito, padre e figlio, il vuoto non esiste. Non esiste presenza se non c’è assenza.

Padre e figlio si implementano, senza competizione. Le loro fotografie dialogano per far riconoscere il loro legame professionale. Che si influenza a vicenda ma autonomamente.

 

Peppe Esposito

Napoletano classe 1960, dalla fine degli anni Settanta è protagonista di una personale ricerca artistica che investe vari linguaggi, dalla fotografia al visual design, dalla grafica d’arte alla pittura. Ha studiato Arte della Stampa all’Istituto d’Arte F. Palizzi e Pittura all’Accademia di Belle Arti di Napoli, dove ha seguito anche il corso di Fotografia di Mimmo Jodice. È docente di Arte del Libro e della Grafica Editoriale presso il Liceo Artistico F. Palizzi di Napoli. Ha esposto in numerose mostre nazionali e internazionali, le sue opere sono presenti in musei, collezioni pubbliche e private ed in archivi di arte contemporanea, sia in Italia che all’estero. Nel 2011 è stato invitato ad esporre alla 54a Biennale di Venezia, Padiglione Italia per la Regione Campania.

 

Luca Esposito

Nato a Napoli nel 1993. Da sempre interessato al racconto visivo in generale, fin da piccolo sviluppa la passione per la fotografia, grazie a suo padre. Questo lo porterà a trovare nella fotografia, il suo abituale modo di vedere le cose nel mondo. Dal 2012 partecipa a mostre fotografiche su territorio nazionale ed internazionale come nel 2017 all’Ostraka Art Fair a Il Cairo in Egitto. Nel 2012 terzo classificato al premio fotografico “Napoli e i Campi Flegrei” e nel 2018 premiato al Museo PAN per “La Napoli di Maurizio Valenzi”. Laureato in Fotografia, Cinema e Televisione all'Accademia di Belle Arti di Napoli. Lavora nel cinema in particolar modo per due ruoli fondamentali nel reparto di macchina da presa, l’aiuto e l’assistente operatore, sul set di produzioni cinematografiche e televisive come RAI, Netflix, Sky, Mediaset, Cattleya, IIF Italian International Film, ecc. Ha lavorato con direttori della Fotografia come Cesare Accetta, Francesca Amitrano, Davide Manca e Carlo Rinaldi e registi come Stefano Incerti, Francesco Patierno, Antonietta De Lillo e Guido Pappadà.

 


© Peppe Esposito


Presenze nelle Assenze

Peppe e Luca Esposito

nell’ambito della rassegna “Fotoart in Garage 2022” a cura di Gianni Biccari.

Art Garage POZZUOLI (NA) Viale Bognar,21 (pochi metri dalla stazione ferroviaria Pozzuoli Solfatara)

Dal 30 al 13 aprile 2022 Opening Sabato 30 aprile ore 17.30/21.30

Orari apertura mostra: lun-ven 10-13 / 16.30-21  sab.10-13  dom. chiuso.

Contatti: Gianni Biccari 338 8805491 – Peppe Esposito 366 3154189


Foto di copertina: © Luca Esposito

13.04.2022 # 6019
Francesca Della Toffola espone all’Istituto Italiano di Fotografia con Accerchiati Incanti, come Ofelia

Marco Maraviglia //

Fotografia moderna 1900-1940. A Torino la collezione Thomas Walther del MoMA di New York

Il CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia di Torino, ospita un’eccezionale mostra fotografica che raccoglie oltre 230 opere fotografiche di 121 autori della prima metà del XX secolo

Fu un periodo, quello della prima metà del XX secolo, con fermenti artistici che determinarono un nuovo corso delle arti figurative. Dadaismo, Surrealismo, il Costruttivismo russo, il Futurismo italiano, il Bauhaus furono un vero e proprio punto di rottura con i canoni del passato aprendo a nuove ricerche visive. Tra le più originali degli ultimi 100 anni. Tutti furono movimenti che ribaltarono vecchi concetti riguardo il modo di concepire il vedere. E quindi il modo di pensare. Già dal 1913 un punto di partenza del ribaltamento del pensiero fu la pratica del Ready-Made duchampiano: la defunzionalizzazione originaria di oggetti, come un orinatoio, rifunzionalizzandoli in opere d’arte.


Si proveniva dalla Belle Époque, un periodo splendido di pace e progresso tecnico-scientifico. Le connessioni tra gli intellettuali erano più rapide e frequenti grazie alle prime auto e all’infoltirsi delle reti ferroviarie che consentivano di viaggiare più facilmente. I giornali proliferavano. I caffè letterari erano punti di riferimento di artisti di ogni ramo e cifra che si incontravano condividendo notizie, idee, opinioni, ipotesi. Qualcuno si intratteneva giocando a cadaveri squisiti. E il pensiero volava a velocità supersonica.


A cavallo delle due guerre mondiali anche la fotografia, grazie all’innovazione tecnologica che iniziò a produrre pellicole più sensibili e fotocamere più leggere, versatili e meno ingombranti, come la Leica uscita nel 1925, seguì questo processo di cambiamento. Un cambiamento che portò inoltre a sperimentazioni come collages, doppie esposizioni, immagini cameraless tipo i rayogrami e fotomontaggi che raccontano una nuova libertà di intendere e usare la fotografia. 

Quel fermento creativo iniziò in Europa subito dopo la Prima Guerra Mondiale per arrivare poi a New York, dove presero rifugio artisti e intellettuali in fuga dalle dittature.


Con la collezione di Thomas Walther, ex giudice conosciuto come "l'ultimo dei cacciatori di nazisti", si deduce un bisogno storico di recuperare e preservare parte di quella cultura artistica fotografica nata in quel periodo travagliato da libri bruciati, opere d’arte sequestrate con le quali si tenne anche la mostra di Arte degenerata nel 1937.

Non sappiamo per certo se nel bottino dei nazisti delle 4.800 opere rubate e ancora conservate nei depositi del Governo tedesco, in attesa di rilevare gli eredi, vi siano anche fotografie di quel periodo.

Fatto sta che la più grande opera della collezione di Thomas Walther sarebbe da considerare Walther stesso.

Ogni autore delle fotografie della collezione, avendo esercitato la propria attività a cavallo delle due guerre, ha vissuto sulla propria pelle momenti tormentati. Chi perché ebreo, chi oggetto di stupro, chi perché considerato eversivo o una spia, chi esiliato ecc., dietro ogni fotografia c’è la storia personale del suo autore interconnessa talvolta con alcuni degli altri autori o comunque con i fatti socio-politico-culturali dell’intero contesto.


È la particolarità di questi decenni a spingere il collezionista Thomas Walther a raccogliere, tra il 1977 e il 1997, le migliori opere fotografiche prodotte in quegli anni riunendole in una collezione unica al mondo, acquisita poi dal MoMA nel 2001 e nel 2017.


Accanto ad immagini iconiche di fotografi americani come Alfred Stieglitz, Edward Steichen, Paul Strand, Walker Evans o Edward Weston e europei come Karl Blossfeldt, Brassaï, Henri Cartier-Bresson, André Kertész e August Sander, la collezione Walther valorizza il ruolo centrale delle donne nella prima fotografia moderna, con opere di Berenice Abbott, Marianne Breslauer, Claude Cahun, Lore Feininger, Florence Henri, Irene Hoffmann, Lotte Jocobi, Lee Miller, Tina Modotti, Germaine Krull, Lucia Moholy, Leni Riefenstahl e molte altre. 

Oltre ai capolavori della fotografia del Bauhaus (László Moholy-Nagy, Iwao Yamawaki), del costruttivismo (El Lissitzky, Aleksandr Rodčenko, Gustav Klutsis), del surrealismo (Man Ray, Maurice Tabard, Raoul Ubac) troviamo anche le sperimentazioni futuriste di Anton Giulio Bragaglia e le composizioni astratte di Luigi Veronesi, due fra gli italiani presenti in mostra insieme a Wanda Wulz e Tina Modotti.


La mostra, leggendo i nove testi ricevuti dall’ufficio stampa, è stata curata nei minimi dettagli secondo percorsi tematici e con un allestimento che comprende anche delle teche nelle quali sono esposte alcune prime edizioni di volumi e riviste, essenziali per la narrazione della storia della fotografia di quegli anni. 


“Anche la scelta della palette di colori della mostra è nata a partire dallo studio di vari prodotti grafici ed editoriali del periodo, trasformando l’esperienza di visita in un’immersione a 360° nello spirito di quest’epoca straordinaria.”


Implementata inoltre da incontri, corsi e workshop, è destinata a essere un momento storico nello scenario delle mostre fotografiche in Italia.

 

 

 

 

Capolavori della fotografia moderna 1900-1940.

La collezione Thomas Walther

del Museum of Modern Art, New York

 

Dal 3 marzo al 26 giugno

 

CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia

Via delle Rosine 18, 10123 - Torino www.camera.to | camera@camera.to

 

Orari di apertura (Ultimo ingresso, 30 minuti prima della chiusura)

Lunedì 11.00 - 19.00

Martedì Chiuso


Mercoledì 11.00 - 19.00

Giovedì 11.00 - 21.00

Venerdì 11.00 - 19.00

Sabato 11.00 - 19.00

Domenica 11.00 - 19.00

 

Biglietti
Ingresso Intero € 12
Ingresso Ridotto € 8, fino a 26 anni, oltre 70 anni


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