Nino Migliori inizia a fotografare verso la fine degli anni Quaranta a Bologna: scopre un’Italia fatta di una nuova quotidianità che si riprende con poesia e precisione. Sono gli anni del realismo e Migliori crea alcune tra le più celebri e significative immagini di questa stagione.
In questi stessi anni, comincia anche le sue sperimentazioni: nascono i “Muri”, i lavori “off-camera”; interviene sulle lastre e sulle pellicole con graffi e incisioni (cliché-verre), usa la luce di un fiammifero per impressionare i negativi (pirogrammi), disegna sulla carta fotografica con i liquidi di fissaggio e di sviluppo (ossidazioni). Sperimenterà con la polaroid, con materiali vari, giocando anche con l’oro e con il bronzo, e inventerà installazioni sorprendenti e innovative. In un incessante lavoro di esplorazione fotografica.
Fotografare, ha affermato, significa scegliere e trasformare.
Nei suoi lavori la materia scelta si trasforma sempre in qualcosa d’altro.
In un brandello di memoria per i posteri, in un interrogativo per i contemporanei, in una strada nuova da percorrere, come le tante che ha percorso, e continua ancora a percorrere, nella sua ricerca.
Trovo utile, in tal senso, riportare una brano di una sua recente intervista.
“Nonostante la sua lunga esperienza fotografica, lei è un maestro sempre aperto alle sperimentazioni e alla fotografia digitale. Cosa si sente di dire a chi ritiene che l'uso del digitale rischia di compromettere il romanticismo e la naturalezza di un'opera?
Non mi stancherò mai di ripetere che fintanto che la luce interverrà nella formazione di una immagine, questa sarà sempre fotografia, indipendentemente che sia fissata su una pellicola o tradotta in codice binario. Fare fotografie significa visualizzare idee, pensieri e questo sin dal 1839 cioè dalla sua invenzione. Per cui l’autore è sempre presente perché sceglie porzioni di spazio e di tempo. Come è sempre presente, quando decide di stampare in modo più o meno contrastato, quando decide di mascherare o cancellare e così via. Che lo faccia in camera oscura in modo apparentemente più artigianale o davanti allo schermo di un computer col mouse non cambia nulla. Ha ragione è solo puro romanticismo, linguisticamente non c’è differenza. E posso aggiungere che la fotografia è un’invenzione per cui necessariamente legata alla tecnologia e ai progressi della scienza. Ne è testimonianza il fatto che siamo passati dal dagherrotipo – tra l’altro pezzo unico senza negativo per cui, per certi versi, solo la polaroid avrebbe potuto essere la sua continuazione – a tutte le innovazioni che nei decenni si sono succedute e dalle quali la fotografia ha tratto vantaggio come sicuramente avverrà con le future innovazioni”.
È la fine della guerra, quel periodo di incertezze e speranze, di necessità concrete, a spingere Nino Migliori verso la fotografia. L’approccio avviene nel segno del realismo, nel bisogno di dare concretezza evidente alla vita quotidiana, all’ambiente familiare.
Prova a realizzare una sorta di libero e autonomo inventario visivo delle persone, dei luoghi, quasi anche degli oggetti di casa, dei gesti, delle abitudini consolidate e dei sentimenti da riscoprire.
La gente dell’Emilia ripresa nei suoi spazi, in un lungo e appassionato reportage; le strade e le case del sud Italia (terra di appropriazione visiva per tanta fotografia del dopoguerra, tra scoperta antropologica e identitaria) dove di fronte alle abitazioni o affacciate alle finestre, le famiglie si dispongono per lui in pose tranquille e confidenziali, come farebbero di fronte all’obiettivo del ritrattista di paese o come da lì a poco – nella nordica Luzzara – avrebbero posato per Paul Strand.
Migliori entra nelle case e come dovrebbe fare ogni buon fotografo che si rispetti registra le cerimonie, i momenti di festa (le comunioni, i matrimoni...), guarda anche nelle botteghe dei barbieri, dentro i bar poco prima della chiusura notturna. Ma l’autore cerca anche nuovi punti di vista per trasformare le visioni della città, vuole trovare prospettive ardite e pose plastiche per essere in grado di mettere insieme una ipotesi di racconto fotografico di quella quotidianità così fragile eppure salda, tutta da riscoprire.
Le fotografie che noi oggi contempliamo denotano da subito una duttilità di movimento e di osservazione, una necessità di essere “accanto”, vicino, di fronte, insomma a contatto con i soggetti da fotografare. Come se la fotografia fosse lo strumento non solo per riprodurre la realtà ma per conoscerla e testimoniarla, in un connubio virtuoso tra fotografo e apparecchiatura. La sua è la stessa “distanza calda” di molta fotografia del Novecento, un calore sincero e attento che Migliori non abbandonerà mai, neanche quando muterà di registro.
Il lavoro di Nino Migliori è in una sequenza ragionata di opere e di serie, seguendo un filo quasi narrativo che dal “racconto della realtà” passa alla “sperimentazione sul mezzo”, per poi indagare la coeva “sperimentazione su linguaggio”, fino alla grande produzione intorno alle “polaroid”, alle “installazioni” per soffermarsi infine sui due concetti di “materia e ricordo”, come i due poli (positivo e negativo – intercambiabili, come si vuole) in cui agisce tutta l’energia vulcanica e lavorativa di Migliori.
Migliori vive nel suo tempo: ascolta, guarda, assimila, compara le esperienze che vede intorno a sé. È sempre stato attento ai nuovi mezzi di comunicazione, curioso (come lo è di tutto) delle nuove potenzialità della fotografia.
Non si sottrae ad alcun dibattito ma anzi lo provoca, lo stuzzica, lo porta oltre, per così dire, e in questo modo sperimenta, prova, elabora, immagina.
Tutto il suo lavoro, tutta la sua sperimentazione, avviene sempre intorno alla possibilità di realizzare incisioni e scritture con la luce: fare fotografia in tutte le sue possibili implicazioni, sicuro che ad interessarlo è più il procedimento che non il risultato finale. Fotografare, ha affermato Nino Migliori, significa scegliere e trasformare. E proprio come nel processo alchemico già evocato, la materia scelta si trasforma in qualche cosa d’altro. In un brandello di memoria per i posteri, in un interrogativo per i contemporanei. Una strada nuova da percorrere. In una strada come le tante che Migliori ha percorso, e continua a percorrere nella sua ricerca»