A cinquant’anni dalla sua scomparsa, Antonio Ligabue torna a Gualtieri (RE), il paese nel quale ha vissuto per oltre 40 anni.
Dal 31 maggio all’8 novembre 2015, Palazzo Bentivoglio, recentemente restaurato, accoglie la grande antologica che, attraverso 180 opere, tra dipinti, disegni, incisioni e sculture in terracotta, ripercorre la vicenda umana e creativa di uno degli autori più geniali e originali del Novecento italiano.
L’esposizione, curata da Sandro Parmiggiani e Sergio Negri, col patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, della Regione Emilia Romagna, della Provincia di Reggio Emilia, è la prima iniziativa organizzata dalla Fondazione Museo Antonio Ligabue e dal Comune di Gualtieri. La Fondazione è stata costituita un anno fa dal Comune di Gualtieri, dal Banco Emiliano Credito Cooperativo e di Girefin SpA, ai quali si è aggiunta Boorea, con lo scopo di istituire, gestire e promuovere il Museo Antonio Ligabue e di valorizzare la figura dell’artista.
La rassegna costituisce un punto fermo da cui partire per una corretta valutazione critica e storica del lavoro di Ligabue; un’occasione per riaffermare, al di là delle fuorvianti definizioni di naïf o di artista segnato dalla follia, il fascino di questo “espressionista tragico” di valore europeo che fonde esasperazione visionaria e gusto decorativo.
Come afferma Sandro Parmiggiani, “l’opera di Ligabue ha finito per essere in parte oscurata dal ‘racconto’ della sua vita, assolutamente eccezionale nella tragicità e nella sofferenza. Tuttavia, se la tormentata esistenza dell’artista ha contribuito, almeno all’inizio e per un certo periodo, a gettare un’aura di leggenda sull’opera, alla fine questa sorta di fardello dell’uomo Ligabue ha ripreso il sopravvento: le ragioni dell’esperienza esistenziale sono sembrate inesorabilmente prevalenti rispetto a quelle artistiche. Ci si è dunque proposti di fare il percorso inverso: non dalla vita all’opera, ma dall’opera alla vita”.
L’allestimento nello spettacolare Salone dei Giganti è stato ideato da Mario Botta che, come dichiara lui stesso, ha trasformato “la meraviglia architettonica della Sala dei Giganti nel cuore stesso dell’antologica dell’artista selvaggio e primitivo, vissuto nei decenni scorsi ai margini di questa città, che ora viene riconosciuto per la profondità del suo essere e per la sapienza del suo fare”.
“È con la consapevolezza del suo lavoro - continua l’architetto svizzero - che ho accettato di allestire l’esposizione; un’occasione per saldare, almeno in parte, un debito morale di riconoscenza verso un personaggio che non ho mai incontrato”.
Il percorso si snoda attraverso alcuni dei massimi capolavori di Ligabue, da Tigre con serpente, gazzella e scheletro, Leopardo che assale un cigno, Tigre reale degli anni Trenta e primi anni Quaranta, per poi passare all’impressionante galleria di autoritratti, da Autoritratto con pianoforte e torre della fine degli anni Quaranta, ai dolenti Autoritratto con berretto da motociclista del 1954-55, Autoritratto del 1958 e all’Autoritratto con berretto da fantino del novembre 1962, poco prima che l’emiparesi lo colpisse e gli impedisse di continuare a dipingere. Non mancano altri capolavori, dai paesaggi bucolici e agresti, in cui sulla linea dell’orizzonte si stagliano castelli e costruzioni della Svizzera conosciute nell’infanzia e nell’adolescenza, alle Carrozze con postiglione, ad alcune versioni dei Cavalli imbizzarriti dal temporale e delle Lotta di galli, a Traversata della Siberia e Aquila con volpe della fine degli anni Quaranta, alla Caccia al cinghiale, alla Vedova nera con volatile e alla Testa di tigre della metà degli anni Cinquanta.
In particolare, nell’universo creativo di Ligabue due sono i motivi verso i quali ha mostrato la sua attrazione o inclinazione: gli animali e i ritratti di sé.
Ligabue rappresenta sia animali domestici, colti in un’atmosfera agreste e bucolica, inseriti in paesaggi in cui giustappone le terre piatte della Bassa reggiana e i castelli, le chiese, le guglie, e le case con le bandiere del vento sui tetti ripidi, della natia Svizzera, sia gli animali della foresta e della giungla - tigri, leoni, volpi, aquile, gorilla - di cui conosceva molto bene l’anatomia, spesso colti nel momento in cui stanno per piombare sulla preda agognata, con un’esasperazione di stampo espressionista che coinvolge anche il colore.
Quello degli autoritratti costituisce un filone di altissima e amarissima poesia nell’arte di Ligabue. In essi, il pittore si colloca in primo piano, quasi a occupare tutto lo spazio della scena, sullo sfondo di un paesaggio che pare quasi sempre, salvo rare eccezioni, un dettaglio del tutto ininfluente.
I suoi autoritratti compendiano una perenne, costante condizione umana di angoscia, di desolazione e di smarrimento, un lento cammino verso l’esito finale. Il suo volto esprime dolore, fatica, sgomento, male di vivere; ogni relazione con il mondo pare essere stata per sempre recisa, quasi che l’artista potesse ormai solo raccontare, per un’ultima volta, la tragedia di un volto e di uno sguardo, che non si cura di vedere le cose intorno a sé, ma che chiede, almeno per una volta, di essere guardato. “Questi autoritratti - ricorda ancora Sandro Parmiggiani - dicono tutta la sofferenza dell’artista; ne sentiamo quasi il muto grido nel silenzio della natura e nella sordità delle persone che lo circondano. Quando perduta è ogni speranza, ormai fattasi cenere, il volto non può che avere questo colore scuro, fangoso, questa sorta di pietrificazione dei tratti che il dolore ha recato con sé e vi ha impresso”.
Catalogo Skira.
LIGABUE.
Gualtieri
Gualtieri (RE),
Palazzo Bentivoglio (piazza Bentivoglio, 36)
31 maggio - 8 novembre 2015