Flavia Tartaglia, classe ’86, si avvicina alla scrittura creativa fin da bambina, trovando nelle parole la sua personale forma d’espressione. “Dove trovi le parole?”, “Si trovano nel vocabolario. Io le trovo nello stato di coinvolgimento”. Approda al mondo della comunicazione attraverso svariate collaborazioni e percorsi formativi presso testate giornalistiche, conseguendo il tesserino da giornalista pubblicista nel 2009 e divenendo di lì a poco direttore responsabile ed editore di un web magazine di arte e cultura e responsabile ufficio stampa di un gruppo di soprano. Dopo aver studiato
Fotografia Pubblicitaria Pro presso la Ilas Academy e Fotografia di Scena con Mario Spada e CFI, si specializza in Fotografia di Scena, maturando esperienza presso Teatro Bellini, Teatro dell'Opera di Roma, Campania Teatro Festival Italia, Teatro Mercadante, Teatro Palapartenope - Casa della Musica, Teatro Ambra Jovinelli, Teatro romano di Ostia Antica, Teatro Tram, Teatro Bolivar, Teatro Nest, Macadam Theatre e Bus Theatre, Sala Assoli, Sala Moliere e molto altro. Ha esposto in collettiva presso Palazzo Ferrajoli (Roma) pubblicando con casa editrice Pagine; presso PAN Palazzo delle Arti (Napoli), pubblicando nel catalogo della mostra. Ha lavorato presso Palazzo Fondi - Barrio Botanico, Napoli. Lavora attualmente presso Teatro Bellini di Napoli.
Come ti descriveresti?
Una romantica. Nel senso che se non c’è uno stimolo emotivo, un’ispirazione che mi attira a livello sentimentale, non riesco ad attivare la mente, non riesco a creare, a muovermi, a fare. Questo vale in ogni ambito della mia vita, anche nel mio mestiere di fotografa, soprattutto nella fotografia di scena, Del Pia disse una frase nella quale mi rispecchio molto: “Perché io faccia un buon lavoro su uno spettacolo, devo nutrire dell'interesse autentico per quella ricerca o per le persone che lo mettono in scena. Quello che accade in scena, ha per me, a tutti gli effetti, la natura di una relazione amorosa".
Qual è stato il momento esatto in cui hai deciso di voler diventare fotografa?
È stato un momento molto intimo. Premetto che latentemente tutta la mia vita ha sempre orbitato attorno all’immagine, l’immagine ha sempre avuto un potere su di me, ma il momento in cui ho preso coscienza di voler fare qualcosa con l’immagine è stato quando ho visto la bellezza di un’artista, una donna soprano in scena. Quella Bellezza, un misto di eleganza e purezza, qualcosa che era al di fuori di questa realtà, di questa società (finalmente!), fu commovente per me al punto da essere preda del bisogno che tutti vedessero ciò che vedevo io. Credo che chi fa fotografia abbia molto più bisogno di affermare che di suggerire, la fotografia è una forma di espressione.
Cosa ti affascina del mondo della fotografia?
L’implicita richiesta di vedere oltre, quel momento in cui inizia in te la ricerca del modo più giusto, inquadratura, punto di vista, suggestioni, per portare in superficie, quindi fotografare, ciò che tu hai visto. Ad esempio mi piace molto lavorare con gli artisti, penso che ogni artista sia anche una persona, ma non tutte le persone sono anche artiste; il momento in cui scopro la persona dietro l’artista, questo mi affascina, è un varco non accessibile a tutti, sembra una conquista.
Che ricordi hai del tuo percorso alla ilas?
La Ilas è stata le mie radici. Senza questo percorso formativo non sarei quello che sono oggi. È stato per me quel tipo di scuola che insegna non solo qualcosa di teorico e pratico, ma ti insegna a pensare, in fine ad essere e, cosa più importante, a scegliere. I miei professori, Ugo Pons Salabelle, Fabio Gordo Chiaese e Felicia Nappo, sono stati dei veri e propri Maestri, con il valore che un tempo si dava a questo termine. Oltretutto li sento ancora, perché mi fido dei loro pareri, se mi dicono che ho fatto bene un lavoro mi sento in pace, soprattutto Felicia, per qualsiasi dubbio o confronto ancora la disturbo e la sua disponibilità mi commuove puntualmente.
Qual è la sfida più grande (lavorativa) che hai dovuto affrontare fino ad oggi? C’è qualche aneddoto?
Fotografare uno spettacolo già in precedenza fotografato da un grande della fotografia di scena contemporanea che stimo tantissimo, temere quel confronto inevitabile, temere di non essere non dico all’altezza ma almeno non essere tanto più bassa. L’aneddoto è quando poi ho deciso di “farmi del male”, mostrando direttamente a lui quelle foto, il quale le ha apprezzate ma la mia risposta al suo apprezzamento è stato uno spontaneo, ovviamente incredulo, ed eccessivamente confidenziale “Seh, vabbè!”, poi mi sono subito ricomposta e ho sperato che non mi avesse sentito.
So che il Teatro è una sorta di ossessione per te. Parlaci di questo amore e di come sei diventata fotografa di scena.
Come tutti gli amori, vanno vissuti a 360 gradi, infatti ho iniziato al teatro Stabile di Napoli-Teatro Nazionale come personale di sala, poi ho collaborato per varie altre realtà teatrali, sono stata ufficio stampa, organizzatore teatrale, responsabile promozione e distribuzione, aiuto regia… insomma mi sono “impicciata” di un po’ di cose. Questo mi ha permesso di osservare molto il teatro, quello che accadeva sul palco, ma soprattutto quello che accadeva dietro: il palco è solo il punto visibile ai più, di un meccanismo invisibile immenso. Ho amato i suoi tempi, i suoi silenzi, i suoi odori, quegli angolini del teatro accessibili solo a chi ci lavora, che sono unici, poetici. Senza accorgermene, ho sviluppato una mia visione. Una sera, semplicemente, mi trovavo per lavoro a teatro, avevo la fotocamera con me perché l’avevo usata di pomeriggio per uno shooting still life alla Ilas, quindi ho iniziato a scattare, oltretutto senza permesso, da un palchetto, di nascosto. Tornata a casa, nel rivedere le fotografie al pc, ho sentito una soddisfazione immensa, sono finita in uno stato di coinvolgimento dal quale non si torna più indietro. Così ho iniziato a propormi ai teatri, soprattutto alle compagnie teatrali, a fare esperienza in questo ambito, pian piano a creare la mia cerchia di clienti. È una conoscenza inesauribile, come tutte le cose vive, forse è proprio questo costante apprendere, questo costante respiro, che mi cattura, non smetterò mai di imparare circa il teatro. Questo percorso non sarebbe andato nella direzione che volevo, però, senza essermi imbattuta nella conoscenza di cinque persone segnanti: Veronica Desiderio, donna e professionista dal valore inestimabile, la quale mi ha dato fiducia inserendomi nello staff di fotografi del teatro Bellini; Clara Bocchino, Maria Claudia Pesapane, Chiara D’Agostino che mi hanno fatto conoscere le loro compagnie teatrali, rispettivamente Putéca Cèlidonia, Ri.Te.Na. Teatro, Burlesque Cabaret Napoli, insieme alle quali ho mosso importanti passi di crescita ed evoluzione; infine Mario Spada, un uomo dall’umanità smisurata, un professionista che non ha bisogno di presentazioni.
Fotografia di Scena e Fotografia Pubblicitaria. Pregi e difetti di queste due categorie. E se hai una preferenza.
La fotografia pubblicitaria è la mia origine, se dovessi usare una parola per descriverla sarebbe “Perfezione”, questo per me è un grande pregio, anzi più che altro lo è la ricerca della perfezione, il perfettibile, che mi tiene viva. Nella fotografia pubblicitaria, ad esempio, difficilmente puoi consegnare ad un cliente uno scatto con una palese imperfezione, a meno che non ti chiedano di fare una ricerca personale al riguardo, che espressamente prevede qualche difetto come parte integrande del risultato. La fotografia di scena, invece, è quasi l’opposto. La prima volta che mostrai il mio portfolio di scena ad un fotografo di teatro mi disse “Le tue foto sono troppo perfette, devi sporcarti un po’!” Fu un commento importante per me, perché significava che avevo acquisito una regola e, si sa, solo se conosci le regole puoi superarle, altrimenti rischi di fare cose senza un senso, dalla frattura poi si riuscirà a creare il proprio stile personale. Alla fine di questo percorso di ricerca, ho capito che non sono due categorie così diverse tra loro, entrambe hanno lo scopo di raccontare qualcosa e di promuoverlo, quello che cambia sono le modalità e il terreno sul quale ti devi muovere, sicuramente non potrei mai rinunciare alla magia del teatro e a quello che la realtà teatrale fa alla mia mente; ma le amo entrambe e trovo me stessa sulla strada giusto a metà tra l’una e l’altra, nell’attimo in cui mi sento chiamata a fondere ciò che entrambe mi hanno insegnato.
C'è una fotografia che hai fatto che più ti rappresenta? Perchè?
Il ritratto di un’attrice, Clara Bocchino. Questo scatto fa parte di un book attrice che stavamo sperimentando, in quel momento non c’era una concentrazione o una particolare preparazione, stavamo quasi giocando prima di iniziare, semplicemente lei ha guardato in macchina, io ho scattato. Rivedendo lo scatto, più che aver raccontato qualcosa di lei, mi è sembrato di aver detto io qualcosa di importante di me, mi è sembrato che la mia verità fosse lì. Mi sono sentita rappresentata dalla sua bellezza, me ne sono sentita orgogliosa, è una fotografia che in realtà mostrerei per raccontare che cos’è per me la Bellezza, non intesa solo come aspetto esteriore ma come qualcosa di profondamente interiore che, ad uno sguardo attento, è visibile all’esterno, in qualche dettaglio di un corpo o di uno sguardo. Mentre in generale, i lavori che più rappresentano il mio stile sono quelli con la compagnia Burlesque Cabaret Napoli, fotografare il burlesque mi riporta a quegli anni che mi piacerebbe tanto tornassero di moda, quelli dove “C’era una certa arte nelle cose di tutti i giorni, dai tostapane, agli orologi!”, citando proprio Dita Von Teese, sovrana del burlesque.
C'è stato un attore/attrice in particolare che ti è piaciuto immortalare?
Decisamente Silvia Calderoni. In un modo delicatissimo mi ha concesso di scattare ad uno spettacolo che la vedeva protagonista. È un piccolo sogno artistico che si è realizzato, perché volevo conoscerla da tempo, sono una fan sia della sua storia personale sia del suo percorso artistico che l’ha portata ad essere indubbiamente un’attrice immensa che ben poco fa rimpiangere le grandi del passato.
Che consiglio daresti a chi si approccia adesso al tuo lavoro?
Di puntare in alto. Perché chi punta in basso, in basso resta. Di non smettere mai di studiare, di imparare, di affrontare senza timore quel percorso che ci porta inevitabilmente a capire qual è il tipo di ambito fotografico che più ci rappresenta, raggiunta questa coscienza, dico di non cedere a compromessi, di non accontentarsi, di non arrendersi, di camminare per quella strada come fosse l’unica e la sola esistente, come se non ci fosse mai un’alternativa, e lungo quella strada proporsi, farsi conoscere, perché la tenacia premia sempre i tenaci.
Ci sono film da guardare, riviste da seguire (o qualsiasi fonte) che consigli a chi vuole percorrere la carriera di fotografo?
Consiglio di guardare tutto, di essere degli osservatori seriali, ossessivi. Tutto ciò che esiste al mondo, i dettagli, le cose, le persone, i frutti della creatività altrui, tutto, il bello e il brutto, tutto insegna ai nostri occhi. In questo modo, spesso senza che nemmeno ce ne accorgiamo, ci ritroviamo pieni di un bagaglio di immagini che miracolosamente sappiamo leggere e di conseguenza creare, un fotografo impara con gli occhi, e l’ispirazione che nasce guardando il lavoro degli altri è tutto, per questo in fine consiglio sicuramente di sfogliare monografie dei grandi fotografi della nostra storia, dalle origini ad oggi, compresi i libri di storia dell’arte, le pitture e, sembrerà strano: la musica, le suggestioni musicali aprono un varco in noi e finiscono dritte alla nostra parte emotiva, quella dalla quale provengono le illuminazioni migliori.
Se la fotografia fosse un'opera teatrale, quale sarebbe?
Salomè, di Oscar Wilde. Mi riferisco alla parte in cui Salomè manifesta la sua passione per Iokanaan, cresciuta in forma di ossessione forse proprio per il negarsi di quest’ultimo. In un monologo struggente e quasi terrificante lei descrive minuziosamente tutto di ciò che ama e al contempo odia dell’immagine di Iokanaan. La fotografia, quella che resta sia in chi la scatta sia in chi la guarda, deve riuscire ad attraversare questo tipo di osservazione che stimola la maggior parte dei sentimenti umani, la Salomè di Wilde, a mio parere, è una di quelle opere che sanno affrontare molto bene questo viaggio.
Hai la possibilità di scegliere come guardare il mondo per un giorno? Scegli Bianco e nero o colori?
Quando si è felici si dice “Oggi vedo il mondo a colori!”, io spero di essere felice. Assolutamente anche in fotografia scelgo i colori. Per descrivere il perché, prendo in prestito le parole che Pina Baush rivolse a Francesco Carbone, il suo fotografo di scena, che le fu fedele e la seguì per tutta la vita e continuò a venerarla anche dopo la morte di lei: “Tu sei mediterraneo, vivi in un posto stupendo, per questo tu puoi fotografare solo a colori!”.
Tre cose di cui NON si potrebbe fare a meno sulla terra.
Quel sentimento d’Amore nell’aria di quando hai in testa una persona; la bellezza delle donne; le persone che supportano la nostra libertà di somigliare il più possibile all’immagine che abbiamo di noi stesse.
Cosa ti tira giù dal letto la mattina?
La speranza. Non c’è punizione peggiore per un essere umano, della perdita della speranza.
Cosa dobbiamo aspettarci da te?
Risponderei piuttosto cosa sogno di realizzare e sicuramente sogno spazio in cui potermi muovere, sogno altezza, sogno di far parte, e di continuare sempre più a far parte, di realtà prestigiose, di grandi realtà nelle quali sentirmi piccola, lo stimolo ad inventare ogni giorno qualcosa in più, per essere all’altezza di ciò che stimo tanto, è ciò che in me fa la differenza tra la vita e la morte.