Urania Casciello //
Generazione Ilas:
Intervista a Claudia Iacomino
Ha iniziato a usare la fotografia per mettere insieme delle visioni che si materializzavano solo quando diventavano un’immagine. Claudia Iacomino si racconta a Generazione Ilas.
Claudia Iacomino nasce nel 1986 a Napoli.
Studia la pratica artistica fin dal liceo e ne approfondisce la teoria e la storia laureandosi in Cultura e Amministrazione dei Beni Culturali presso l’Università Federico II di Napoli, con una tesi sull’identità fotografica. Nel 2014 si specializza con lode in Fotografia come Linguaggio d’arte all’Accademia di Belle Arti di Napoli con una ricerca personale sul linguaggio fotografico e la sua relativa percezione. Dal 2014 inizia ad insegnare Arte della Fotografia negli istituti superiori di Latina e Napoli, dividendosi tra Lazio e Campania. La sua costante indagine sul reale la porta ad utilizzare lo strumento fotografico concependolo come il più adatto a descrivere il pensiero più che la realtà. Anche quando esplora nuovi mezzi, come il video, non abbandona la semantica fotografica, prediligendo l’esaltazione dell’immagine statica come metafora del pensiero.
Come ti descriveresti?
Adesso io, non lo nego, non son capace di descrivermi, mi sembra che si finisca quasi sempre in quella falsa modestia dell’essere questo o quello. Vediamo, posso dire di essere tante persone insieme che si incontrano, si scontrano, a volte si lasciano ma poi resistono; che mi piace osservare le cose che accadono, a volte molto più di viverle e non solo per pigrizia piuttosto per incapacità. Mi piace scoprire cose nuove, che detto così sembra l’incipit di un tema di mia nipote, eppure è così. Un libro, un artista, un movimento storico, un regista, mi viene sempre di cercare risposte lì. La tecnologia no, quella non mi piace, ho un rapporto complesso con la velocità.
Hai sempre saputo di voler fare la fotografa?
Essere fotografi significa tante cose, legate anche a come si usa la fotografia, al ruolo che le si dà. Io ho iniziato a usarla per mettere insieme delle visioni che si materializzavano solo quando diventavano un’immagine. Poi, specializzandomi, ho iniziato a lavorare con la fotografia commerciale, a insegnarla ma il ruolo di fotografa mi appartiene solo quando ritorno al mondo delle visioni, quando creo qualcosa che prima non c’era.
©Claudia Iacomino
Che ricordi hai del tuo percorso alla Ilas?
Durante un periodo molto frenetico, in cui studiavo a Roma, insegnavo a Latina e vivevo contemporaneamente a Napoli, mi chiama il Direttore del corso di Fotografia dell’Accademia delle Belle Arti di Napoli per dirmi che avevo vinto una borsa di studio di un anno alla Ilas. Ero lusingata ma anche stanca di riiniziare a studiare la tecnica fotografica, e qui c’è stata la sorpresa. La Ilas non è stata solo tecnica, eccellente e fatta a livelli professionali, è stata crescita personale e sviluppo delle identità fotografiche, con cui ognuno di noi entrava in contatto. Pierluigi De Simone è un prezioso insegnante, ci ha portati oltre la pratica in studio, verso la semantica, la narrativa e in generale verso una cultura fotografica su cui ancora oggi, spesso, apriamo grandi dibattiti.
Qual è la sfida lavorativa più grande che hai dovuto affrontare?
Finiti gli studi sono partita per Londra. Andavo in giro per gallerie a presentare il mio lavoro, la mia ricerca. Proporsi significa anche convincere l’altro del valore del tuo lavoro, e questa è stata una grande sfida. Mi sono presentata sul set di un fotografo di moda e appena mi ha vista mi ha detto chiaramente “non posso farti lavorare qui, sei troppo esile, non saresti utile neanche per montare i set”. Poi a fine giornata mi
ha chiesto di restare. Abbiamo lavorato insieme per uno shooting e sono andata via. Non era quello che mi interessava. Ad oggi la sfida più grande è quella di ripensare alla fotografia come mezzo per contemplare un dolore, ma è tanto più ardua.
©Claudia Iacomino
Cosa ti affascina del mondo della fotografia?
La sua identità, e non a livello ontologico. Io penso per immagini. A tutte le parole che ascolto gli attribuisco un’immagine, un ricordo visivo, è così che funziona e questo mi affascina. E non è solo l’eterna dialettica tra realtà e percezione, è molto di più. E’ la capacità che ha la fotografia di suggestionare la nostra visione, di attivare dei meccanismi esperienziali in silenzio, senza fare troppo rumore e in modo quasi infimo. E’ una bugia autentica ma è anche coscienza individuale e collettiva, è conoscenza delle cose. Inoltre sempre più spesso mi attirano i suoi limiti; analizzare tutto quello che la fotografia non è: il suono, l’odore, le parole; questo mi ha portato a sviluppare un lavoro di sinestesie visive, “La fotografia degli altri è bellissima” in cui il testo suggerisce l’Immagine. Un modo diverso di pensare alla fotografia, svuotandola dal referente.
Mi ha colpito molto l’immagine che hai su facebook, una foto “manipolata” da Julie Cockburn con ago e filo. Quanto pensi sia fondamentale fare ricerca al di là della fotografia?
Una volta ho letto questa frase ironica che diceva “Ma quelli che fanno ricerca, in realtà cosa cercano?” e mi piacerebbe dare una risposta piena di senso ma non ce l’ho, anzi colleziono dubbi per questo ricerco.
Probabilmente si prova a cercare significati profondi nelle cose, delle risposte, o magari si cerca di lasciare una traccia, a volte lo si fa anche solo per ego, per dire la propria, che è il modo peggiore di fare ricerca.
©Claudia Iacomino
C’è un fotografo a cui ti ispiri?
Cattelan, perché non è un fotografo. Ma in generale dipende dall’umore.
Che consiglio daresti a chi si approccia adesso al tuo lavoro?
Di conoscere il mondo delle immagini, tutto, dai pittogrammi alla storia dell’arte passando per la grafica, fino al cinema. Riempirsi gli occhi di ciò che è stato, di ciò che è e di ciò che la nostra mente può generare con la lettura, la musica ed ogni forma di cultura.
C’è una fotografia che hai fatto che più ti rappresenta?
No, non direi, la foto non è mai finita. Ogni foto scattata può essere la base per un’altra fotografia, e queste sono le parole di Gastel(!). Piuttosto mi piace guardare con soddisfazione e affetto questo estratto di “Oggi ho conosciuto un uovo”, una delle mie prime fotografie, sulla quale ho costruito un profondo lavoro di ricerca.
©Claudia Iacomino
Se la fotografia fosse una ricetta, quale sarebbe?
Non so cucinare, non amo mangiare e in generale non ricordo i sapori che assaggio.
Hai la possibilità di scegliere come guardare il mondo per un giorno? Scegli Bianco e nero o colori?
Ho fatto un solo lavoro in bianco e nero “Sedimenti”, esposto questo dicembre alla Fondazione Circolo Artistico Politecnico, in una collettiva. Per quanto fosse stata una scelta ponderata e faticosamente accettata, avevo prurito alle mani ogni volta che lo vedevo. Il colore mi serve a comunicare una sensazione precisa, così come la sua assenza ha un valore semantico, ne sono cosciente. Il punto è che i colori esistono, inficiano la nostra espressione delle cose e non riesco ad escluderli dal processo visivo.
©Claudia Iacomino
Tre cose di cui NON si potrebbe fare a meno sulla terra.
Il fuoco, il cibo, l’arte.
Cosa ti tira giù dal letto la mattina?
Rispondere a questa domanda in un periodo di singolare quarantena, è difficile. Per ogni altro giorno sarebbe valsa la risposta di cercare stimoli, osservare dettagli, recuperare domande, formulare risposte. Adesso provo a pormi le stesse ambizioni ma senza troppa consolazione.
Cosa dobbiamo aspettarci da te?
Probabilmente un cambiamento di rotta rispetto a quanto prodotto finora.