Urania Casciello //
Generazione Ilas:
Intervista a Sofiya Chotyrbok
Ama affrontare vita e progetti con passione viscerale, come ha fatto con il suo ultimo lavoro
Sofiya Chotyrbok nasce nel 1991 in Ucraina. All’età di 9 anni si trasferisce in provincia di Napoli, dove presto inizia a interessarsi alla fotografia. Frequenta il corso di Fotografia e Grafica pubblicitaria alla Ilas Accademia Italiana di Comunicazione Visiva, diplomandosi nel 2013. Successivamente si trasferisce a Milano, dove frequenta il corso di Fotografia biennale presso cfp Bauer, fino al conseguimento del diploma. Nel corso dei suoi studi, matura la scelta di operare sul materiale d’archivio e sulle immagini esistenti, dando vita a due progetti – Millenovecentonovantuno e Deficit – che indagano il tema della memoria e la stampa materica su tessuto. Deficit è stato esposto recentemente presso la Fondazione Stelline di Milano ed è stato selezionato e proiettato al Mana Contemporary di Chicago. Attualmente è impegnata in uno stage presso lo studio di Miro Zagnoli a Milano.
DEFICIT from Sofiya Chotyrbok on Vimeo.
(Urania Casciello) Come ti descriveresti?
(Sofiya Chotyrbok) Credo di essere una persona solida, con i piedi ben piantati per terra, disposta a sacrificarmi per quello in cui credo. Ma mi piace anche pensare di avere in me un’altra parte più leggera e mistica, che si lascia trasportare dal caos e dal vento della vita, per raccogliere i segni del destino. Dico sempre di essere un fiume e di essere nata con un soffio di vento (cit. Io sono di legno, Giulia Carcasi).
Sofiya Chotyrbok
Hai sempre saputo di voler fare la fotografa?
L’ho scoperto per caso a 17 anni, quando ho cominciato a scattare fotografie un po’ per gioco. È lì che ho deciso che sarebbe stata la mia strada. Sono passati 11 anni e nulla è cambiato. Nel mio percorso, anche intraprendendo altre strade, sono sempre tornata a lei. La fotografia è la mia espressione, la mia ossessione.
Che ricordi hai del tuo percorso alla ilas?
È stato il ponte fra il percorso liceale e il mondo creativo. La prima possibilità che ho avuto per studiare fotografia, per capire cos’è un’immagine. È stato il periodo più bello della mia vita, colmo di incontri, di insegnamenti e di amicizie che porto avanti tuttora. Alcune lezioni di vita apprese in questo percorso continuano a rappresentare il mio riferimento quotidiano, non posso ad esempio dimenticare la frase che mi disse un giorno Fabio Chiaese: “prenditi cura dei tuoi demoni, ti rappresentano e fanno di te quello che sei”. Questo consiglio lo tengo stretto da allora e gliene sarò per sempre grata.
Cosa ti affascina del mondo della fotografia?
Mi piace che abbia vite infinite. La fotografia, dall’idea al risultato finale, ha mille processi fisici e mentali che restituiscono a chi la crea una pace interiore o una carica di energia. È un processo magico anche per colui che osserva la fotografia e la fa propria.
C’è un fotografo a cui ti ispiri?
Ad essere sincera non ho un fotografo di riferimento. Ce ne sono tanti che ammiro e stimo, ma la mia attenzione è rivolta in questo momento ad artisti che lavorano con la fotografia, come nel caso di Christian Boltanski. I suoi lavori mi emozionano e sono profondamente affascinata dalla profondità del suo processo creativo.”L’incontro” è avvenuto nel periodo in cui ho iniziato ad usare il tessuto come supporto per i miei lavori: ritrovare nel suo modus operandi una serie di analogie con il mio approccio istintivo mi ha dato maggiore forza e consapevolezza.
Deficit – il tuo ultimo progetto – è una sorta di macchina nel tempo che vuole celebrare la memoria della tua famiglia. Da cosa sei partita, a cosa sei arrivata?
Deficit è una installazione che nasce dall’incontro del mio ampio archivio familiare con l’ossessione per l’opera di Ilya Kabakov, un noto artista di origini ucraine. Lo spunto iniziale è stato quello di lavorare sulle abitazioni sovietiche, ma non potendo andare nella mia terra natale, ho cercato di relazionarmi con esse a distanza. Ho capito con il tempo che la mia attenzione fosse rivolta principalmente al tappeto, un oggetto ricorrente in tutte le case dell’ex unione sovietica. Da lì sono arrivata a realizzare un lavoro con varie declinazioni, utilizzando diversi tipi di tessuto, la carta ed il video. Tanti supporti per un unico messaggio: dove la memoria personale è “in deficit”, interviene quella collettiva. E’ stato importante dare solidità materica a queste immagini, affinché l’esperienza divenisse tattile anche per lo spettatore. La dimensione rituale del contatto lo riconduce alla propria memoria personale, come se prendesse in mano vecchie fotografie.
Quali sono state le reazioni della tua famiglia al progetto?
La prima reazione di mia madre è stata buffa. Ha manifestato un moderato apprezzamento, privo dell’entusiasmo che le appartiene. Mi ha poi confessato che la inquietassero i volti coperti dal tappeto, ma dopo averle spiegato il motivo di questa scelta, ha acquisito maggiore consapevolezza del processo, fino ad innamorarsene. La zia di mia mamma ci ha trovato un’altra chiave di lettura interessante: il tessuto le ha ridato la sensazione di “ovattato”, una condizione che le ha ricordato la sua vita da cittadina sovietica. Questa interpretazione, per me del tutto nuova, mi ha fatto riflettere molto. È un progetto che potrebbe prendere altre strade nel corso del tempo, chissà!
Hai la possibilità di scegliere come guardare il mondo per un giorno? Scegli Bianco e nero o colori?
Assolutamente in bianco e nero! Faccio mia una citazione di Daido Moriyama per spiegarne il motivo: “Il bianco e nero racconta il mio mondo interiore, le emozioni e i sentimenti più profondi che provo ogni giorni camminando per le strade di Tokyo o di altre città, come un vagabondo senza meta. [..] E’ ricco di contrasti, è aspro, riflette a pieno il mio carattere solitario.”
C’è una canzone, un brano, che ti rappresenta più di altre?
Faccio fatica a individuare una canzone in particolare, ma se dovessi scegliere sarebbe una composizione di Philip Glass: la sua musica accompagna spesso le mie giornate. Lenisce i tormenti di quelle più buie, eleva la concentrazione di quelle più produttive e creative.
Tre cose di cui non si potrebbe fare a meno sulla terra?
Libri, caffè e stare a contatto con la natura. Queste tre cose mi fanno star bene e mi fanno sentire viva!
Cosa ti tira giù dal letto la mattina?
L’odore del caffè e sapere di avere poco tempo per fare tutto quello che vorrei. Quando però ho un progetto su cui lavorare, stilo una lista di cose da fare e allora mi alzo molto presto e mi metto all’opera. Svegliarsi con le prime luci dell’alba mi dona linfa ed energia.
Cosa dobbiamo aspettarci da te?
Ho terminato da poco un percorso di studi che mi ha portato, dopo l’esperienza all’Ilas, a frequentare un corso di formazione biennale presso la scuola Bauer. Sto iniziando a misurarmi con la dimensione lavorativa e valutando la possibilità di un ulteriore percorso di studi riguardante l’archivio fotografico e la catalogazione. Parto dalle certezze della mia formazione per guardare positivamente al mio futuro. Ho già altri progetti in mente e lavorerò sodo per dar loro vita. Spero di avere fra 10 anni ancora questa passione viscerale e la giusta dose di leggerezza per affrontare nuove sfide.
uraniacasciello@ilas.com
Scrivo. Da quando ho iniziato a scrivere sapevo che un giorno sarebbe stato il mio lavoro. Nel 2012 mi sono diplomata in Art Direction e Copywriting alla ILAS e ho frequentato il Master in Social Media e Web Marketing e il Corso Annuale in Fotografia Pubblicitaria. Scrivo per ILAS Magazine e ho collaborato con la scuola alla realizzazione di eventi come il Behance Portfolio Review al Pan di Napoli, l´ILAS Sonorized Exhibition e alcune mostre alla The Gallery Studio. I miei amori sparsi sono: i gatti, Parigi, Ernest Hemingway, la pizza, Batman, le gomme del ponte di Brooklyn, Labyrinth, Ritorno ad OZ, le maratone (di serie-tv e film) e David Bowie.